Qualche giorno fa sui social circolava questa foto. Ritrae tre grandi nomi del nostro tempo – Cristiano Ronaldo, Jeff Bezos, e Barack Obama –, tre numeri uno dei propri rispettivi campi che vantano “umili origini.” Che sono arrivati dove sono grazie alla loro abilità, sbaragliando la concorrenza di chi aveva, in partenza, più mezzi di loro.
La mia mente è andata subito a uno degli articoli della nostra amata Costituzione, il numero 34:
La scuola è aperta a tutti.
Costituzione italiana, Parte I – Diritti e doveri dei cittadini, Titolo II – Rapporti etico-sociali
L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita.
I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.
La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso.
È la parte della Costituzione su cui si fonda il concetto di meritocrazia. Entrato nel vocabolario di uso comune con un’accezione positiva, diversamente da quella che fu la sua origine (vedi qui).
Notare che l’articolo 34 fa da contraltare all’articolo 3 della Costituzione (o va in contrasto con questo?), secondo cui “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.” Di tutti i lavoratori (inteso come sinonimo di “cittadini”), non solo dei capaci e dei meritevoli.
Essenzialmente l’articolo 34 dice: dobbiamo fare in modo che i Bezos e gli Obama (per Ronaldo vale un discorso un po’ diverso, da sportivo) che si celano tra le famiglie italiane più umili, che potrebbero non permettersi di continuare a studiare, abbiano i mezzi per farlo.
È, in sostanza, una delle traduzioni italiche del sogno americano che Bezos e Obama impersonano alla perfezione.
Jeff’s Amazing Story
Jeff Bezos non è mai stato povero, ma non proviene da una famiglia ricca. I genitori avevano 16 e 17 anni quando lui nacque e si separarono dopo pochi anni. La madre si risposò con il giovane Miguel Bezos, cubano emigrato negli Stati Uniti a 15 anni. Come racconta un bell’articolo di Wired del 1999, sia il padre naturale che quello adottivo sono stati per Bezos un modello positivo: laureati, ingegneri, impiegati in grandi imprese, con spirito imprenditoriale. Ma il sistema scolastico statunitense ha dato a Jeff tutto lo spazio per esprimersi:
- riuscì a frequentare una scuola pubblica di Houston – la River Oaks Elementary School – anche abitando a 40 miglia dalla stessa, perché coinvolto in un programma (il Vanguard program) che mirava a integrare nella città anche i ragazzi (più dotati) che abitavano in provincia. La sua storia è stata raccontata anche in un libro del 1977 (ora disponibile anche su Amazon!): Turning on Bright Minds: A Parent Looks at Gifted Education in Texas;
- trasferitosi in Florida, Jeff partecipò a un programma della Miami Palmetto High School (di nuovo una scuola pubblica) che gli permise di frequentare alcuni corsi di scienze all’Università della Florida; poi risultò migliore del suo anno e vinse il prestigioso Silver Knight Award del quotidiano Miami Herald.
Con una mente brillante e un curriculum del genere – che lo segnalava come una mente eccellente – Bezos riuscì quindi a entrare a Princeton (con una borsa di studio? Non so), dove si laureò con lode in Ingegneria Elettronica e ricoprì posizioni di rilievo all’interno delle associazioni studentesche.
Barry Obama: dall’Indonesia (e dalle Hawaii) con furore
Anche Barack Obama non è mai stato povero, ma anche nel suo caso la vita – soprattutto nei primi anni – è stata costellata di ostacoli non banali. Figlio di un’antropologa e di un’economista keniota, i genitori si separarono quando lui aveva solo 3 anni (perché il padre andò a studiare ad Harvard, proprio grazie a una borsa di studio). A 6 anni, Barack e la madre si trasferirono a Giacarta, Indonesia, per raggiungere il nuovo marito della madre, indonesiano.
Dopo 5 anni a Giacarta, in cui frequentò una scuola indonesiana e una scuola autonoma anglosassone – la Calvert School – a distanza, tornò alle Hawaii dove vivevano i nonni materni, con cui visse fino al college. Anche per Barack ‘Barry’ Obama il supporto delle borse di studio fu fondamentale, per chiudere il gap che rischiava di penalizzarlo rispetto ad altre menti brillanti come lui:
- dal 1971 al 1979 (quindi dalla prima media alla fine delle scuole superiori), Barack ricevette una borsa di studio che gli permise di frequentare la Punahou School, una scuola privata abbastanza prestigiosa di Honolulu, fatta per preparare gli studenti al college (college-preparatory school);
- nel 1979 Obama si trasferì a Los Angeles per frequentare l’Occidental College, in cui i suoi studi vennero completamente finanziati da una borsa di studio. Tuttavia non si laureò qui ma alla Columbia University di New York, in scienze politiche (con borsa? Non so);
- dopo la laurea triennale nel 1983, non si iscrisse subito a un corso magistrale, ma lavorò per cinque anni come ricercatore, pubblicista, attivista e community organizer in diverse organizzazioni, prima a New York e poi a Chicago. Qui, nel 1988, accettò un posto alla Harvard Law School, rifiutando un posto (con full scholarship) alla Northwestern University, altro prestigioso ateneo.
La sua carriera ad Harvard fu brillante, e arrivò alla ribalta nazionale nel 1991 quando, oltre a laurearsi in legge con lode, divenne il primo presidente nero della Harvard Law Review.
E Ronaldo che c’entra?
Cristiano Ronaldo ha una storia unica, ma non tanto lontana da quella di altri grandi campioni cresciuti in condizioni di povertà più o meno estrema: Pelè, Maradona, Messi (che non era proprio povero, ma non aveva i soldi per curare la sua GHD, anche a causa della crisi argentina), l’altro Ronaldo (il Fenomeno), Zidane, Ribéry, Lukaku, Mbappé.
La madre era una cuoca, e ha confessato che avrebbe voluto abortirlo per paura di non riuscire a mantenerlo; il padre era un giardiniere, morto per alcolismo nel 2005. Arrivato allo Sporting Lisbona a 12 anni, a 14 decise di abbandonare la scuola per dedicarsi al calcio professionistico. Non aveva brillato negli studi, ed era stato espulso per aver lanciato una sedia a un’insegnante (fonte).
Non è un caso che molti grandi campioni di uno sport popolare come il calcio abbiano un passato di povertà. Il calcio è uno sport per tutti: per giocare basta un pallone, non servono particolari attrezzature. Le ore infinite trascorse a giocare nelle strade o nelle piccole squadre di provincia, poi, creano quella competizione agguerrita che è perfetta per selezionare i talenti naturali migliori. Le grandi squadre di tutto il mondo lo sanno: ogni strada del globo è potenzialmente il teatro del provino di un nuovo campione. E lo sanno anche i bambini di tutto il mondo! Se giocano tutti, e giocano tanto, il talento troverà il modo di emergere, che sia nei bassifondi di Sao Paulo o nei cortili di Montecarlo.
L’Ancien Régime: andare sul sicuro
Immaginiamo un problema di questo tipo:
- dobbiamo scegliere qualcuno a cui far svolgere un compito molto delicato, come guidare un’impresa multi-milionaria, essere il leader di una nazione potentissima, o guidare la propria squadra in una finale continentale;
- immaginiamo di doverlo scegliere non subito prima di svolgere quel compito, ma con 20-30 anni di anticipo;
- infine, immaginiamo di sceglierlo tra un pool di bambini o giovani ragazzi diviso tra ricchi (il 50%) e poveri (l’altro 50%).
Chi scegliamo?
È una domanda non banale, attenzione: le risorse per formare individui per compiti così ardui sono scarse. Preparare qualcuno per 20-30 anni per ruoli così difficili richiede tanti soldi, energie, competenze. Su chi scommettiamo?
Fino a qualche decennio fa la risposta sarebbe stata abbastanza semplice: scegliamo uno dei bambini ricchi. Non solo. Visto l’investimento, continuiamo a scommettere sequenzialmente anche su tutta la sua progenie, così l’investimento fatto al tempo t continua a fruttare anche nei periodi t+1, t+2, … e non dobbiamo ogni volta reinvestire in qualcuno di completamente nuovo, rischiando di più. “Chi lascia la via vecchia per la nuova, non sa mica quel che trova.”
È il concetto alla base della monarchia, del conservatorismo, del classismo: non ci affidiamo ai ricchi perché ci fanno schifo i poveri; ci affidiamo a loro perché loro ci assicurano qualcosa, perché sappiamo – con ragionevole approssimazione – che sono stati educati bene, che sono sani.
La questione della salute non è secondaria: immaginiamo di poter scegliere il giovane Lionel Messi o il giovane Cristiano Ronaldo come capitani delle rispettive nazionali di calcio, ma con 30 anni di anticipo. Messi ancora affetto da deficit ormonale, Ronaldo da tachicardia. Sceglieremmo loro? Probabilmente no, per bravi che ci sembrino.
Quello che siamo bravi a fare: selezionare
Col tempo, abbiamo capito che il problema descritto sopra si può risolvere in maniera più efficace, aggiungendo un’ipotesi: immaginiamo di avere a disposizione un qualche “dispositivo” che ci permetta di capire chi sia il più adatto al compito, indipendentemente dall’estrazione sociale.
Bastano due elementi per rendere questa ipotesi realistica:
- Che sia sfatato il pregiudizio per cui certe abilità si ritrovano solo tra i più benestanti. Se crediamo che anche il figlio di un poveraccio possa essere un bravo imprenditore, un bravo politico, o un bravo calciatore, ci affidiamo più volentieri a questo dispositivo;
- Anche al fine di sfatare il pregiudizio in (1), è necessario che alcune condizioni di base siano rispettate per tutti, ovvero che tutti – anche i più poveri – abbiano accesso all’istruzione, alla sanità, e ai servizi sociali di base. Capito perché i liberali, storicamente, hanno sempre promosso un certo moderato progressismo? Perché se i poveri non hanno almeno un minimo di educazione e di salute, neanche i migliori tra i più poveri hanno modo di emergere.
Una volta rispettate queste due condizioni (la #2 è la grande conquista del Novecento, sulla #1 si basano il famoso sogno americano e il nostro articolo 34), basta azionare il potente dispositivo. Un dispositivo che svolge un lavoro molto semplice: seleziona i talenti naturali (o comunque, quelli con una certa attitudine al ruolo).
Di che dispositivo parliamo? Qualsiasi forma di selezione, qualsiasi meccanismo che permetta di segnalare all’esterno che in quella persona c’è della “qualità.” Potrebbe trattarsi di:
- un sistema di borse di studio meritocratico e competitivo: la competizione ci assicura che stiamo premiando i migliori, e il premio funge da segnale per chi legge il curriculum/portfolio negli step successivi (ad esempio all’università). Lo stesso vale per qualsiasi “extra” dedicato all’eccellenza: un programma extra-curriculare per ottenere ulteriori crediti, un progetto scolastico, la gestione di un giornalino scolastico/una rivista accademica (come la Harvard Law Review!).
È facile da capire: ogni volta che voglio selezionare sulla base della qualità devo offrire un percorso/prodotto standard (il piano di studi curriculare) un percorso/prodotto extra. È un ragionamento del tutto analogo a quello che vale per Spotify: il consumatore standard lo “monetizzo” con il piano basic, sulla base della pubblicità; il consumatore più sofisticato o agiato lo “monetizzo” con il piano premium, perché è disposto a pagare per avere di più e si auto-seleziona; - un sistema di screening continuo: se allargo a dismisura il pool di candidati – ricchi e poveri – sono abbastanza sicuro di selezionare anche i più bravi tra i più poveri, a maggior ragione se li faccio competere tra loro continuamente, ogni giorno. È il Ronaldo approach (di Ronaldo il Fenomeno, stavolta): è sufficiente aspettare chi esce vincitore dalle continue sfide di street football di Rio de Janeiro per capire chi sarà la nuova stella della nazionale brasiliana. Si banalizza, naturalmente. Ma è un meccanismo potente.
Vale lo stesso per un altro tipo di selezione molto importante: quello del partner. Se mi assicuro che anche i poveri siano istruiti (==“sanno mettere in fila due pensieri compiuti”), socialmente tutelati (==“non generano continui drammi familiari”), e sani (==“non sono sdentati, hanno un fisico tonico”), diventa facile credere che un bellissimo modello o una bellissima modella (come stereotipi del partner ideale, per questo si chiamano modelli) possano provenire da qualsiasi sobborgo del Paese. Nel momento in cui l’immagine diventa pervasiva (con i media, internet, i social), diventa ancor più facile andare a caccia di queste gemme dei poveri. In piccolo, è quello che vediamo anche sui vari Tinder & co.: una volta considerata una (non troppo grande) serie di parametri, anch’io in periferia posso aspirare a trovare la mia donna ideale, con qualche centinaio di swipe. Screening continuo.
Ci avete mai pensato? Solo due grandi industrie fanno casting e recruiting anche nei paesini più piccoli del mondo: quella calcistica e quella dello spettacolo. Perché la competizione è aperta a tutti e la performance non è fortemente correlata al reddito, data la geniale semplicità dell’oggetto (calciare un pallone, essere attraenti); e perché una ricerca così vasta ha un grande rendimento potenziale: trovare il prossimo Ronaldo (o la prossima Emma Stone).
Selezionare non è banale, ma è un processo che sicuramente paga. Se trovo il modo per innescare una selezione positiva, potrò non avere in mano sempre il meglio del meglio, ma ho sicuramente in mano il meglio di quello che avevo a disposizione. E i meccanismi di selezione positiva sono noti. Possono essere più o meno costosi, ma li conosciamo.
Selezionare è semplice soprattutto per un altro motivo: non cambia le carte in tavola. È vero: se seleziono i migliori tra i più poveri posso comunque scardinare l’ordine precostituito. È il mantra progressista del sogno americano. Ma resta il fatto che non ho generato cambiamento nella popolazione che ho davanti, mi sono rapportato ad essa dall’esterno: ho solo preso atto di una condizione più complessa (ricchi-bravi, ricchi-non bravi, poveri-bravi, poveri-non bravi) di quella dell’ancien régime (ricchi vs poveri), e ho agito di conseguenza (selezionando i bravi, indipendentemente dalla classe sociale).
Siamo però così passati da un mondo classista, quello in cui dominano le famiglie col sangue blu, a un mondo meritocratico, dove dominano i Bezos, gli Obama, e i Ronaldo di turno. Prima vincevano i ricchi, punto. Poi siamo passati a una situazione che molti definiscono “di giustizia”: quella del motto “vinca il migliore.” Tra gli sconfitti, però, un gruppo c’è sempre. Gli ultimi, i poveri-non bravi, sono condannati al ruolo di ultimi come prima. Con l’unica differenza che, nel mondo meritocratico, anche le loro condizioni di base sono migliorate, perché serve un’assicurazione sulla “qualità minima” dei più poveri.
La Terza Via: tutti possono vincere, basta cambiare gioco
Una prima scappatoia “progressista” a questa trappola della povertà è dire: tutti hanno un talento, dobbiamo solo capire quale. Ovvero: tutti sono potenzialmente almeno un piccolo Bezos/Obama/Ronaldo in un qualche campo, dobbiamo impegnarci per capire quale sia questo campo e fornire tutti i mezzi per eccellere in esso, a qualsiasi livello.
È legata a questa visione la famosa critica secondo cui il sistema scolastico sarebbe conformista, perché riconosce un solo talento in luogo di molteplici e variegati talenti. Ve la ricordate la famosa citazione attribuita ad Einstein?
Ognuno è un genio. Ma se si giudica un pesce dalla sua abilità di arrampicarsi sugli alberi lui passerà tutta la sua vita a credersi stupido.
L’avrà detto davvero Albert Einstein?
Non sono sicuro che Einstein l’abbia detto o scritto davvero, ma sono sicuro che ognuno di noi conosce almeno un insegnante che ha citato questo aforisma una volta nella vita.
“Ognuno è un genio”, e quindi dobbiamo attrezzarci per capire al meglio e più in fretta possibile se chi abbiamo davanti è un pesce o un altro animale. Sia chiaro, però: stiamo ancora solamente selezionando. Selezioniamo meglio, selezioniamo con un occhio alla diversità, ma stiamo sempre e solo selezionando. Come dire che prima facevamo solo cherry-picking (sceglievamo le ciliegie migliori dalla cassetta), adesso facciamo anche cream-skimming (separiamo la panna dal latte), ma il concetto è lo stesso. Prima avevamo solo ciliegie, adesso abbiamo capito che il mondo è fatto sia di ciliegie che di latte.
E se rimane comunque qualcuno fuori? Se qualcuno continua a (metaforicamente) perdere?
È importante notare che questa logica non è falsificabile. Se fallisce, c’è sempre modo di dire che non abbiamo fallito perché la logica è fallace (non è vero che “ognuno è un genio”), ma perché non siamo stati abbastanza bravi a trovare le competizioni adatte per far vincere tutti, prima o poi. Insomma, è la soluzione “progressista” perfetta per un leit-motiv ben noto: non dobbiamo fare diversamente le cose, dobbiamo solo continuare a fare quello che abbiamo iniziato a fare con più convinzione.
È uno scontro che non è facile vincere, questo. Che forse non finirà mai. Ma che mi trova nei ranghi di quelli che credono che:
- esisteranno sempre dei vinti, se ragioniamo solo in termini competitivi;
- ogni sistema è fallibile, e se c’è un fallimento questo è figlio del sistema, o suo corollario;
- se c’è un fallimento, bisogna cambiare modo di fare le cose; non basta dire “more of the same.”
Quello che non siamo bravi a fare: creare talento
La verità credo che sia la seguente: anche tra i progressisti – com’erano molti dei Costituenti italiani – l’idea che l’istruzione e più in generale il lavoro sulla persona (la cura delle persone a tutto tondo) abbiano un potere trasformativo è minoritaria; è ancora egemone l’idea per cui l’istruzione e la cura della persona nella sua crescita abbiano prima di tutto una funzione selettiva/segnalativa.
È un vecchio dibattito in economia, in particolare nell’economia dell’istruzione: prevale l’effetto capitale umano o l’effetto di signaling? (vedi qui per qualche useful insight)
Non è certo questo il luogo per risolvere il dilemma, certo è che – tra le due opzioni – la prima è più radicale, più trasformativa, potremmo dire più “progressista,” della seconda. Se educare non è che un modo per rimescolare le carte – anche rimescolandole all’infinito, ok –, il gioco sarà comunque in qualche modo ricorsivo. Notare che lo stesso termine educare è figlio di quest’ultima visione, mentre il termine insegnare è figlio della prima:
- e-ducare deriva dal latino ex ducere, ovvero “condurre fuori.” Ciò significa che educando un individuo si fa emergere qualcosa che è (==“deve essere”) già dentro di lui. Se sei nato operaio non puoi diventare dottore, al massimo posso far emergere da te l’operaio migliore del mondo;
- in-segnare, invece, deriva dal latino in segnare, appunto, ovvero “segnare interiormente.” Se insegno qualcosa a te vuol dire che sto cambiando la tua natura profonda, ti sto facendo diventare qualcos’altro, potenzialmente qualcosa di molto distante da quello che sei o avresti potuto essere.
Siamo molto bravi ad educare, molto meno ad insegnare.
Siamo molto bravi a tirare fuori dalle persone le capacità che loro già hanno, premiandone il merito, piuttosto che costruire insieme nuove capacità, e crescere, e trasformare la realtà.
Quello che non vogliamo fare: uscire dalla competizione
Però il punto vero è un altro. Preferiamo continuare a vivere in un mondo fatto di vincitori e vinti, di campionati e classifiche, piuttosto che mettere al primo posto il benessere di tutti. Preferiamo raccontare e raccontarci ipocritamente che tutti potremo vincere, un giorno, piuttosto che fare i conti col fatto che così non è, e non può essere.
La competizione è utile, una sana competizione è fondamentale. Ma è un elemento del vivere insieme. È uno dei possibili meccanismi per risolvere i nostri problemi. Siamo passati da un mondo in cui vincevano sempre gli stessi, a un mondo in cui possono vincere anche altri, ma alcuni perderanno sempre. Abbiamo iniziato a raccontarci la frottola secondo cui possiamo vincere tutti, basta azzeccare la competizione adatta a noi. E invece è il momento di dire: qualcuno perderà, magari sempre gli stessi. Ma non fa niente, perché non solo sulla competizione si basa la nostra società.
L’unico modo per stare davvero dalla parte degli ultimi non è dire: prima o poi vincerete anche voi, sicuramente. E neanche promettere il paradiso nell’Alto dei Cieli. Bensì dire: ecco gli strumenti per competere; perdere, tuttavia, non fa di te un povero. E cooperare, collaborare per costruire insieme una realtà diversa, trasformata da noi, trasformati.
Viva l’Italia… l’Italia dimenticata e l’Italia da dimenticare
Molti diranno: ma questa è già l’Italia! Siamo il Paese in cui nessuno perde mai.
Concordo, in una certa misura.
Ma l’assenza di competizione, in Italia, ha comunque significato marcire in una qualche forma di povertà. Sia esso l’assistenzialismo statale, la collusione col crimine organizzato, o l’imbarbarimento culturale.
I capaci e i meritevoli ce l’hanno sempre fatta, da noi, quando la famiglia se l’è potuto permettere.
Gli incapaci e gli immeritevoli hanno spesso dominato, ma solo perché qualche famiglia è restata sempre dalla loro parte.
Cosicché molti capaci e meritevoli hanno patito, e sembriamo spesso intrappolati nell’ancien régime.
Ma la vera trappola della povertà, in Italia così come nel mondo intero, è quella che relega i più poveri, le persone prive persino di capacità e merito, tra gli ultimi degli ultimi. Quelli con cui nessuno vuole avere a che fare.
È questa la vera sfida.
È a questo che serve la scuola. Oggi ancora più che ieri.
I capaci e i meritevoli ce la faranno anche senza di noi.
[F.O.]
Featured image: https://www.endchildpovertyus.org/principles