“E poi venne l’11 settembre, e gli americani ebbero la sensazione che il loro mondo andasse a gambe all’aria. Con la giustizia alle spalle e il mondo al nostro fianco, in poco più di un mese scacciammo il governo talebano da Kabul. I membri di al-Qaida fuggirono, o vennero catturati o uccisi.
Era un buon inizio da parte dell’amministrazione, pensai: fermo, misurato e portato a termine con perdite minime. E così, assieme al resto del mondo attesi con grandi aspettative quanto ritenevo sarebbe seguito: l’enunciazione di una politica estera statunitense per il ventunesimo secolo che non solo adeguasse alla minaccia delle reti terroristiche la nostra pianificazione militare, le operazioni di spionaggio e le difese in patria, ma costruisse un nuovo consenso internazionale attorno alle sfide delle minacce transnazionali.
Questo nuovo progetto non arrivò mai. Ci fu propinato invece un assortimento di politiche superate risalenti a epoche remote, rispolverate, raffazzonate e alle quali erano state appiccicate nuove etichette.
Nell’autunno del 2002 avevo già deciso di candidarmi per il Senato degli Stati Uniti, e sapevo che la possibilità di una guerra contro l’Iraq sarebbe stata in primo piano in ogni campagna elettorale. Non solo l’idea dell’invasione riscuoteva sempre più consenso, ma nel merito non consideravo il processo alla guerra già bell’e risolto: come la maggior parte degli analisti ritenevo che Saddam possedesse armi chimiche e batteriologiche, e ambisse ad armamenti nucleari, ero convinto che si fosse ripetutamente preso gioco delle risoluzioni dell’Onu e dei suoi ispettori sul disarmo, e che questo comportamento dovesse comportate qualche conseguenza; era un fatto indiscusso che Saddam massacrasse il suo stesso popolo, e non avevo alcun dubbio che il mondo e il popolo iracheno sarebbero stati meglio senza di lui.
Dissi anche: “Dopo aver assistito al massacro e alla distruzione, alla polvere e alle lacrime, sostengo l’impegno di questa amministrazione a dare la caccia ed estirpare chi assassina innocenti in nome dell’intolleranza”, e “volentieri prenderei io stesso le armi per impedire che una tale tragedia avvenga di nuovo”. Non potevo però sostenere “una guerra stupida, una guerra avventata, una guerra basata non sulla ragione ma sulla passione, non sui principi ma sulla politica”.
Il fatto è che, quasi cinque anni dopo l’11 settembre e quindici dopo il crollo dell’Unione Sovietica, agli Stati Uniti manca ancora una politica di sicurezza nazionale coerente: invece di principi guida, sembriamo disporre solo di una serie di decisioni estemporanee dai risultati dubbi. Perché invadere l’Iraq e non la Corea del Nord o la Birmania? Perché intervenire in Bosnia e non nel Darfur? I nostri obiettivi sono cambiare il regime in Iran, smantellarne il potenziale nucleare, prevenire la proliferazione di armi atomiche, o tutte e tre le cose? Ci impegniamo a usare la forza ovunque un regime dispotico terrorizzi il suo popolo? E in tal caso, quanto a lungo ci fermiamo per assicurarci che si radichi la democrazia? Come trattiamo Paesi come la Cina, che si liberalizzano dal punto di vista economico ma non politico? Ricorriamo alle Nazioni Unite per tutti i problemi, o soltanto quando sono disposte a ratificare decisioni che abbiamo già preso?
Senza una strategia ben articolata, sostenuta dall’opinione pubblica e compresa dal resto del mondo, l’America mancherà della legittimazione – in ultima analisi del potere – di cui ha bisogno per rendere il pianeta più sicuro di quanto lo sia oggi. Abbiamo bisogno di ridefinire la nostra politica estera nel suo complesso, in modo che uguagli l’audacia e la portata delle politiche di Truman dopo la Seconda guerra mondiale; che affronti le sfide sia le opportunità di un nuovo millennio, che ci guidi nell’uso della forza ed esprima i nostri ideali. […] Tanto per cominciare, bisognerebbe capire che un ritorno all’isolazionismo – o una politica estera che non riconosca la necessità occasionale di schierare truppe statunitensi non funzionerebbe.
Tra i liberal i tre principali obiettivi in politica estera erano ritirare le truppe dall’Iraq, arginare la diffusione deII’Aids e lavorare a più stretto contatto con i nostri alleati. Gli obiettivi sostenuti dai liberal sono meritori, ma difficilmente possono costituire la base di una politica coerente per la sicurezza nazionale. Ci piaccia o meno, se vogliamo rendere più sicura l’America dovremo contribuire a rendere più sicuro il mondo.”
[F.O. – adapted from Barack Obama, L’audacia della speranza (2007)]
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