Se tento di trovare una formula comoda per definire il tempo in cui sono cresciuto, credo di essere il più conciso possibile dicendo: fu l’Età dell’Oro della Sicurezza.
Ognuno sapeva quanto possedeva o quanto gli era dovuto, quel che era permesso e quel che era proibito: tutto aveva una sua norma, un peso e una misura precisi. Chi possedeva un capitale era in grado di calcolare con esattezza il reddito annuo corrispondente; il funzionario, l’ufficiale potevano con certezza cercare nel calendario l’anno dell’avanzamento o quello della pensione. Ogni famiglia aveva un bilancio preciso, sapeva quanto poteva spendere per l’affitto e il vitto, per le vacanze e per gli obblighi sociali, e vi era anche sempre una piccola riserva per gli imprevisti, per le malattie e il medico. Chi possedeva una casa la considerava asilo sicuro dei figli e dei nipoti; fattorie e aziende passavano per eredità di generazione in generazione; appena un neonato era in culla, si metteva nel salvadanaio o si deponeva alla cassa di risparmio il primo obolo per il suo avvenire, una piccola riserva per il suo cammino.
Nessuno credeva a guerre, a rivoluzioni e sconvolgimenti. Ogni atto radicale, ogni violenza apparivano ormai impossibili nell’età della ragione.
Questo senso di sicurezza era il possesso più ambito, l’ideale comune a milioni e milioni. La vita pareva degna di essere vissuta soltanto con tale sicurezza e si faceva sempre più ampia la cerchia delle persone che desideravano di partecipare a quel bene prezioso. Dapprima furono solo i possidenti a compiacersi del privilegio, ma a poco a poco accorsero le masse; il secolo della sicurezza divenne anche l’età dell’oro per tutte le forme di assicurazione. Solo chi poteva guardare all’avvenire senza preoccupazioni godeva del presente in tutta tranquillità.
In questa commovente fiducia di poter chiudere anche l’ultima falla all’irrompere della sorte, c’era, malgrado l’apparente austerità e modestia nel concepire la vita, una presunzione pericolosa. Eravamo onestamente convinti di trovarci sulla via diritta e infallibile verso ‘il migliore dei mondi possibili’. Guardavamo con dispregio le epoche anteriori con le loro guerre, carestie, rivoluzioni, come fossero state tempi in cui l’umanità era ancora minorenne e insufficientemente illuminata. Ora invece non era più che un problema di decenni, poi le ultime violenze del male sarebbero state del tutto superate.
Tale fede in un ‘progresso’ ininterrotto e incoercibile ebbe per quell’età la forza di una religione; si credeva in quel progresso più che nella Bibbia e il suo vangelo sembrava inoppugnabilmente dimostrato dai continui, nuovi miracoli della scienza e della tecnica.
Anche nel campo sociale si avanzava; di anno in anno venivano concessi nuovi diritti all’individuo, la giustizia veniva amministrata con maggiore senso umanitario e persino il problema dei problemi, la povertà delle masse, non appariva più insuperabile. Sociologi e professori andavano a gara nello sforzo di rendere più sana e persino più felice l’esistenza del proletariato. Come stupirsi che il secolo si compiacesse dell’opera propria e vedesse in ogni nuovo decennio solo un gradino verso un decennio migliore?
Non si temevano ricadute barbariche come le guerre tra popoli europei, così come non si credeva più alle streghe e ai fantasmi; i nostri padri erano tenacemente compenetrati dalla fede nella irresistibile forza conciliatrice della tolleranza. Lealmente credevano che i confini e le divergenze esistenti fra le nazioni o le confessioni religiose avrebbero finito per sciogliersi in un comune senso di umanità, concedendo così a tutti la pace e la sicurezza, i beni supremi.
Oggi, dopo che la grande bufera lo ha frantumato, sappiamo definitivamente che quel mondo della sicurezza è stato un castello di sogni.
Eppure, anche dagli abissi dell’orrore nel quale noi oggi ci muoviamo, semiciechi, a tastoni, con l’animo sconvolto e dilaniato, io torno pur sempre ad alzare lo sguardo verso le antiche costellazioni che scintillavano nel cielo della mia infanzia e mi conforto con la fede innata che un giorno questa nostra ricaduta debba apparire soltanto un intervallo nel ritmo eterno dell’eterno progredire.
[F.O. – adattato da Stefan Zweig,
Il mondo di ieri (1941), cap. 1]
Featured image: Koloman Moser,
Die Kunst für Alle (1898)