Le pietre e il popolo

Il Palais des Papes di Avignone è un luogo bellissimo. Perché sono bellissime la città che lo circonda e l’enorme e coloratissima piazza che sovrasta. E perché è un palazzo sontuoso, da favola, con quella pietra chiara che riluce al sole e contrasta il cielo azzurrissimo del sud della Francia. Gli interni enormi e le mille stanze e torrette sono un’immagine plastica dell’immenso potere accumulato dai pontefici. Insomma, il Palazzo dei Papi è davvero un palazzo straordinario.

O forse no. Forse è solo un palazzo, un palazzo molto molto ordinario. Bello, sì, ma dimenticabile. Freddo, vuoto, morto. Gli ospiti di oggi – i turisti – vagano fra gli ambienti del castello distratti, occasionalmente intrattenuti da un video, da mappe, oggetti, poster e depliant, dal vecchio forziere nella stanza del tesoro. Ne escono soddisfatti a metà, contenti di aver spuntato un’altra voce dalla loro lista-delle-cose-da-vedere, ma in fondo scottati dal contatto superficiale con un corpo freddo, che non li ha segnati né toccati nel profondo. La visita è stata essenzialmente il riconoscimento di un cadavere, ha misurato la distanza incolmabile tra il passante di oggi (il turista) e il padrone del passato (il sovrano). In una delle sale grandi del castello campeggiano le foto in bianco e nero della spoliazione di inizio Novecento, rivolte verso i fori lasciati dalle decorazioni in legno sulle pareti di pietra. Immortalano il momento dell’omicidio.

Forse è arrivato il momento di tornare a chiederci: quali sono le funzioni della politica dei beni culturali? È un’esigenza valida non solo per l’Italia, sebbene userò spesso l’Italia come riferimento. Ecco, possiamo sintetizzare queste funzioni in 3 pilastri. Lo farò con l’aiuto di Tomaso Montanari* e del suo Patrimonio culturale (2013):

1. Tutela – i beni culturali vanno protetti dall’inclemenza del tempo. Vanno conservati, restaurati, manutenuti, ricercati, protetti dal vandalismo (violento e nonviolento) degli uomini e della natura.
Scrive Montanari: “Di fronte all’indecisione semantica (si alternavano i concetti di “vigilanza” e “protezione”), il deputato Codignola affermò perentorio, in una seduta della Costituente del 30 aprile 1947: «Lo Stato non protegge, tutela». Mentre il concetto di protezione ha in sé qualcosa di episodico e puntuale, la tutela non è emergenziale, ma sistematica e dunque preventiva e programmata” (pp. 52-53).

2. Pubblicità – sebbene i beni culturali non siano dei beni pubblici, l’offerta di beni e servizi culturali è un servizio pubblico essenziale. È diritto dei cittadini beneficiare della ricchezza storica e culturale del proprio Paese (e non solo?), e avervi accesso è una delle più grandi e rivoluzionarie (e incomplete, ovviamente) conquiste moderne. Era ed è obiettivo fondamentale del progresso che anche il disoccupato, il povero, il non-istruito, l’operaio e il contadino potessero camminare nelle stanze e nei giardini un tempo riservati ai papi o ai re di Francia. Per questo principio primo è necessario che venga ben delimitato il ruolo dei privati. In democrazia non possono esistere città proibite.
Scrive ancora Montanari: “Di chi sono l’arte, il paesaggio e l’ambiente? Di tutti. Ma non di tutti e di nessuno: di tutti e di ciascuno. Sono una proprietà collettiva il cui vero scopo è soddisfare i diritti fondamentali delle persone. Sono beni comuni che servono a realizzare il bene comune: la civilizzazione” (p. 10).

3. Educazione – il patrimonio culturale è uno dei principali strumenti a disposizione dello Stato per la promozione attiva di alcuni valori su cui esso stesso si fonda. La conoscenza pura, la storia, la bellezza, la memoria, l’apertura e il dialogo, l’integrazione (e il conflitto?) fra i popoli, il pensiero e la creatività. Con il fine non di mostrare, bensì di in-segnare, di far sì che determinati valori siano interiorizzati (o – meno paternalisticamente – avvicinati, conosciuti e presi in considerazione).
Scrive sempre Montanari: “Educare vuol dire tirare fuori dalle persone ciò che in esse è già, almeno in potenza. Educare al patrimonio vuol dire far viaggiare i cittadini alla scoperta del loro Paese, indurli a dialogare con le opere nei loro contesti, e non in quei tristi giardini zoologici a pagamento che sono quasi sempre le mostre. Renderli capaci di leggere il palinsesto straordinario di natura, arte e storia che i padri hanno lasciato loro” (p. 18).
E ancora: “Ma a che diavolo serve il patrimonio culturale? Non è una domanda sciocca, oziosa o impertinente. La comprensione razionale, culturale e storica del patrimonio è uno strumento che consente «il pieno sviluppo della persona umana» (v. humanitas). L’arte del passato, e i suoi legami con gli uomini e con la natura, ci introducono in un mondo di forme in cui sperimentiamo la disciplina e la libertà, l’invenzione e il realismo. E ci fa anche capire quanti modi diversi ci sono stati e ci sono per essere uomini: ci educa alla complessità, alla tolleranza, alla laicità” (p. 26).

Tenere insieme questi 3 elementi è il compito (difficilissimo!) della politica dei beni culturali di un Paese. Un compito in cui il modello politico-culturale à la Avignon fallisce sistematicamente. Un modello in cui tutto viene museificato, messo in una teca (reale o ideale) e reso intoccabile, inavvicinabile. Spogliato, mummificato, imbalsamato. La tutela diventa distanza, la pubblicità diventa turismo (vedi qui), l’educazione scompare.

Così come le mostre sono spesso «come la merda, fanno bene a chi le fa, non a chi le guarda» (cit. Federico Zeri), il turismo si trasforma facilmente (sempre?) in un movimento che fa bene soprattutto (solo?) a chi lo organizza:
“La sicurezza del patrimonio è il problema minore. L’esodo dai centri storici e la trasformazione delle città d’arte in luna park sono tra gli esiti di questa monocoltura turistica anti-imprenditoriale e anti-culturale. La vera sfida è che il turismo non si risolva necessariamente nell’ennesima manifestazione del consumismo e dell’omologazione universale, ma sia un momento di liberazione personale e di incontro sociale. L’alternativa è tra continuare a coltivare una rendita desertificante e decidersi a costruire le condizioni per un turismo sostenibile: diffuso, di formazione e non solo di intrattenimento, che entri in rapporto con le città e non solo con l’arte” (pp. 35-36).

È tempo di immaginare una nuova prospettiva a lungo termine, in cui le risorse non siano più investite in questo circolo vizioso e vuoto, bensì servano per far vivere il patrimonio culturale. Soprattutto relativamente ad alcune categorie (la maggior parte) di beni culturali. Seguendo la classificazione dell’italiana Legge Bottai del 1939: i beni architettonici, i centri storici, le biblioteche, i musei, e alcuni casi particolari di beni storici, artistici e archeologici. Basta mausolei, basta sepolcri. Attenzione: non per illudersi di poter vincere la lotta contro il tempo, e non per annullare il valore delle rimembranze:
“Il patrimonio è anche un luogo di assenza: la storia dell’arte ci mette di fronte un passato irrimediabilmente perduto, diverso, altro da noi. Il rapporto col patrimonio artistico – così come il rapporto con la filosofia, la storia, la letteratura, ma in modo straordinariamente più concreto – ci libera dalla dittatura totalitaria del presente: ci fa capire fino in fondo quanto siamo mortali e fragili, e al tempo stesso coltiva ed esalta le nostre aspirazioni di futuro” (p. 24).

Ma lo storico dell’arte riesce benissimo a identificare il fine di un nuovo necessario approccio:
“Ogni volta che leggo Dante non posso dimenticare di essere stato battezzato nel suo stesso Battistero, sette secoli dopo: l’identità dello spazio congiunge e fa dialogare tempi ed esseri umani lontanissimi. Non per annullare le differenze, in un attualismo superficiale, ma per interrogarle, contarle, renderle eloquenti e vitali.
Sostare nel Pantheon, a Roma, non vuol dire solo occupare lo stesso spazio fisico che un giorno fu occupato da Adriano, Carlo Magno o Velázquez, o respirare a pochi metri dalle spoglie di Raffaello. Vuol dire anche immaginare i sentimenti, i pensieri, le speranze dei miei figli, e dei figli dei miei figli, e di un’umanità che non conosceremo, ma i cui passi calpesteranno le stesse pietre, e i cui occhi saranno riempiti dalle stesse forme e dagli stessi colori”  (pp. 24-25).
“Per secoli, anzi per millenni, l’arte è stata sinonimo di creazione, non di contemplazione; è stata un modo per cambiare il mondo, non per fuggirne; è stata il centro e il culmine dell’attività umana, non un superfluo balocco degli sfaccendati. Poesia viene da ‘poiein’: fare, operare. E ciò che la poesia fa, se davvero è poesia, è cambiare per sempre chi la conosce. Ma oggi non siamo disposti a riconoscere all’arte, e al patrimonio culturale in genere, un ruolo ‘operativo’. Il secolare cammino che ha liberato l’arte da qualunque funzione e qualunque contenuto ha avuto un prezzo. Quel prezzo è stato la riduzione dell’arte a una dimensione meramente soggettiva, il che – ha scritto Edgar Wind – «non fa perdere all’arte la sua qualità di arte, ma le fa perdere il suo legame diretto con la nostra esistenza: l’arte diventa una splendida superfluità» (Arte e anarchia, 1963). La funzione politica e sociale del patrimonio culturale sancita dall’articolo 9 della Costituzione italiana avvia un processo contrario: una risemantizzazione democratica dell’arte del passato. La nostra sfida dev’essere coltivare questo processo, fino a vedere le opere d’arte non come feticci nati per morire in un museo, ma come nervi della nostra vita civile e della nostra opera pubblica” (pp. 40-41).

E in questo l’Italia – molto spesso non per suoi particolari o presenti meriti – è un ottimo esempio:
“L’arte, in Italia, non bisogna andarsela a cercare. Non è un passatempo a pagamento, lo svago dei ricchi la domenica pomeriggio. No, l’arte è un fatto ambientale. Quasi tutti ci sbattiamo la faccia ogni giorno: uscendo di casa, andando al lavoro, passeggiando. Perfino all’italiano su cinque che ormai vive in periferie, o in non-luoghi che nulla hanno a che fare con la nostra storia, capita di incontrarla: anche solo facendo documenti nel palazzo comunale, o camminando in campagna” (p. 7).

Ed è proprio di questo che abbiamo bisogno. Che i beni culturali diventino, tornino ad essere, prima di tutto luoghi. Uffici e spazi pubblici, teatri, centri sociali, università, centri di ricerca. Che tornino alla loro funzione, che ne acquistino una nuova. Ridare vita al patrimonio in questo modo è costoso, perché rende ancor più difficile tenere insieme i 3 pilastri. Soprattutto a discapito del primo, che rischia di essere compromesso sia sotto il profilo materiale (l’usura dei beni) che immateriale (la loro memoria). Ma farlo è possibile e desiderabile. Abbiamo abdicato a questo ruolo in favore della contemplazione e del racconto della storia, rinunciando a scriverla, a diventarne protagonisti. Ovvero abbiamo comunque rinunciato alla sintesi tutela-pubblicità-educazione, a discapito degli ultimi 2 elementi, che sono il fine ultimo. Disperdendo risorse e rischiando che quei beni, di fatto inutili, siano ulteriormente travolti da una qualche furia politica o economica:
“Perché un italiano dovrebbe essere felice di mantenere, con le sue sudate tasse, un patrimonio che sente lontano, inaccessibile, superfluo come il lusso dei ricchi? Per la maggior parte degli italiani il patrimonio è come un’immensa biblioteca stampata in un alfabeto ormai sconosciuto. E non si può amare, e dunque voler salvare, ciò che non si comprende, ciò che non si sente proprio. E questo drammatico scollamento tra i cittadini sovrani e uno dei segni più alti della loro sovranità è il frutto di molti tradimenti, del fallimento di molte corporazioni autoreferenziali” (p. 17).

Le chiese – e la Chiesa – sono l’esempio perfetto. Il loro fascino non è solo estetico o meramente storico, sta nella sopravvivenza dei riti, delle atmosfere e delle funzioni. Quanta differenza fa? La stessa differenza che c’è tra fare un giro a Notre-Dame in un momento qualsiasi, e arrivare mentre si celebra un matrimonio. Quando la cattedrale smette di essere un monumento gotico e diventa (anche!) il teatro della Parigi di oggi, il presente di una coppia di sposi e delle loro famiglie. Ma potremmo dire lo stesso per il Campidoglio e per il Quirinale – antichissimi pezzi della “città proibita”, oggi case di istituzioni democratiche, aperte al pubblico -, per la Bauhaus a Dessau – ancora oggi un centro di ricerca -, per gli hutong di Pechino – purtroppo spesso travolti dall’urbanizzazione -, per la Scala di Milano o per l’Università di Oxford. Luoghi che il turista può visitare, ma che soprattutto il cittadino può vivere. E in questo sta la loro bellezza, il loro valore, il loro successo, il loro potenziale democratico, educativo e permanentemente rivoluzionario. La magnifica Lonja de la Seda di Valencia non è che una sfarzosissima scatola vuota, nella sua versione luna park. Il silenzio di pietra che la caratterizza oggi è l’antitesi della sua vita, animata dalla contrattazioni, dalle tensioni fra i mercanti, dai gesti scatenati alla ricerca dell’accordo migliore. Nessuno di questi luoghi è fatto per essere solamente osservato, e ogni teca è una bestemmia.

Alla lettera “R” di “ricerca”, il dizionario di Montanari recita:
“Se un museo smette di fare ricerca, diventa un deposito di roba vecchia. La tutela non è un fine in sè: il fine è la conoscenza. Una conoscenza diffusa, democratica, accessibile. Pensate ai grandiosi edifici che abbiamo ereditato dall’antico regime, e che oggi non sembrano avere alcun senso se non quello di diventare scatoloni, locations, contenitori di un commercialissimo marketing della cultura. Un altro destino sarebbe possibile: se solo si avessero l’intelligenza, l’onestà, il coraggio di provarci. Per esempio, Venaria Reale potrebbe diventare la sede di un centro di ricerca sulla società di corte nell’antico regime, la Villa Reale di Monza ne potrebbe ospitare uno sul neoclassico, la Reggia di Colorno, in Emilia, uno sulla storia dell’alimentazione, l’ex manicomio della Villa medicea dell’Ambrogiana uno sulla malattia mentale, Villa Lante a Bagnaia uno sulla cucina, Badia Morronese a Sulmona uno sulla vita religiosa, la Reggia di Caserta uno sull’arte dei giardini e così via. Una direzione che non escluderebbe affatto l’apertura di questi monumenti al turismo (come i Reales Sitios spagnoli), ma anche alla vita culturale e sociale delle comunità locali. Un progetto con un costo, certo: ma un costo infinitamente inferiore di quello che comporta lasciarli andare in decadenza e poi restaurarli mantenendoli come luna park di Stato. E i dividendi di inclusione sociale, sviluppo territoriale mediato, crescita civile, occupazione qualificata sarebbero altissimi: più o meno quelli ovvi e doverosi per il Paese che, nonostante tutto, è l’Italia” (pp. 46-47).

Esiste alternativa?


[F.O.]
Featured image: murales by PichiAvo, Valencia
*da Montanari (2013) anche l’ispirazione per il titolo del post, tratto da una poesia di Franco Fortini.

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