La legalità è morta, viva la legalità!

Sette anni fa, in questo periodo, non avevo ancora deciso a che facoltà iscrivermi. Non avevo particolare fretta, ma avevo da tempo ridotto le mie alternative a tre opzioni: Economia, Scienze politiche, Giurisprudenza. Ogni tanto leggevo qualche piano di studi per farmi ingolosire, e questo esercizio quasi estetico mi convinse ad iscrivermi a un solo test d’ingresso, quello di economia.

Qualche mese più in là, dopo quasi un anno di frequenza, tornai nell’amato liceo che mi ero appena lasciato alle spalle. Faccia a faccia con una prof, lei con tono quasi nostalgico mi disse: “Quindi alla fine economia… Ma perché non giurisprudenza? Saresti stato un fantastico avvocato, o un eccellente giurista.”

Lì per lì fui certamente lusingato, ma soprattutto fui sorpreso dal rischio che l’insegnante si prese, dicendo qualcosa che avrebbe potuto destabilizzare un quasi-20enne. Col tempo, invece, ripensandoci, sono andato molto oltre. Ora, a distanza di sette anni, ringrazio il cielo (quasi) ogni giorno per aver fatto la scelta giusta a quel tempo. Scegliere giurisprudenza sarebbe stata una violenza intollerabile contro me stesso. (E, ovviamente, tengo a mente quest’episodio come ottimo esempio del pericolo che si può correre accettando consigli da persone che non ci conoscono a sufficienza e che, com’è giusto e ovvio che sia, si portano dietro la loro visione del mondo.)

Sette anni dopo

Sette anni fa – quando quella conversazione ebbe luogo –, la Lega era al 4%. Era ancora un partito regionalista, sebbene già razzista e populista. Sette anni dopo, la Lega è il primo partito italiano, ha completato la sua mutazione verso il fascismo nazionalista, e fa il bello e il cattivo tempo in uno dei Governi peggiori dell’Italia repubblicana (ma non dimentichiamo il Governo Berlusconi IV, eh!).

Sette anni dopo, siamo reduci dall’affaire Siri. Armando Siri – sottosegretario alle infrastrutture, craxiano doc, padre della flat tax che tanti voti ha portato alla Lega, già condannato per bancarotta fraudolenta – è indagato per corruzione. Ovvie le conseguenze: braccio di ferro fra i partiti di Governo, Lega che minaccia la crisi, Primo Ministro che esige e ottiene – come se fosse una grande vittoria – le dimissioni del sottosegretario.

Nella stessa settimana, la Lega alla Camera aveva incassato un (altro) successo. È stata infatti approvata in prima lettura la leggina che “reintroduce” l’educazione civica come insegnamento obbligatorio nella scuola primaria e secondaria (link). Poco importa che il cambiamento rispetto allo status quo ante sia minimo: l’educazione civica è di nuovo una “materia”, col suo bel voto in pagella, il suo insegnante di riferimento, il suo programmino, e persino qualche spicciolo di finanziamento.

Altro scenario, altra storia: a metà giugno è iniziato il processo che vede imputato – tra gli altri – l’ex Sindaco di Riace Mimmo Lucano. Le accuse: associazione a delinquere nella gestione dei fondi per l’accoglienza dei migranti, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, irregolarità nell’appalto del servizio di raccolta dei rifiuti. Nel frattempo la Lega ha conquistato il Comune (e Lucano è rimasto fuori dal Consiglio Comunale; link), è stato confermato l’esilio dell’ex Sindaco dalla cittadina, e la storia del ‘modello Riace’ è finita in un documentario. Ordinarie storie di eroismo locale.

Poi arriviamo alla strettissima attualità: l’odissea della Sea Watch 3 e la disobbedienza di Carola Rackete. Venti giorni di attesa e polemiche, 40 migranti tenuti in ostaggio a largo di Lampedusa fino alla forzatura del blocco. Il finale – poco sorprendente – è delle ultime ore: il Capitano della nave dev’essere rilasciato, ha agito seguendo le leggi internazionali e del mare, dando priorità allo “stato di necessità” dei migranti salvati piuttosto che al dettato del Decreto Sicurezza bis.

Il paradigma dell’ipocrisia

Siri e l’educazione civica, Mimmo Lucano, la Sea Watch 3. Quattro casi e un fil rouge: la distanza abissale e misurabile tra il dettato della legge e i fatti umani, sociali, politici.

Sia chiaro: il sistema legale e giudiziario ha anche giocato un ruolo positivo in queste vicende: Lucano è stato almeno in parte sgravato dai giudici dall’oppressione del Ministero dell’Interno e dei media; la stessa Rackete ha agito sapendo che il diritto era dalla sua parte.

Ciò che però viene smontato – anche dal ruolo di garanzia e tutela che il potere giudiziario stesso ha rivestito in questi frangenti – è il paradigma dell’ipocrisia che caratterizza gran parte della cultura del Diritto. Un paradigma semplice: è la realtà a doversi adattare alle norme astratte e generali, non il contrario. Sono i bisogni umani che devono corrispondere alle strutture logiche decise nelle Stanze delle Regole, non viceversa. Chiunque non si pieghi al paradigma sarà punito severamente, nei modi e nei tempi (!) stabiliti dalla Legge.

Per alcuni probabilmente non sarebbe nemmeno necessario soffermarsi su quanto tale paradigma sia profondamente radicato nella cultura italiana (e, sebbene in misura minore, in tutte le culture che hanno importato lo ius civile dall’Impero Romano). Tuttavia, credo sia bene sottolinearlo: questo paradigma fa parte di noi; è un pezzo della nostra genetica; plasma le nostre menti e la visione che abbiamo del mondo. Questo tipo di rapporto con le Regole fa parte della nostra “identità” – qualunque cosa essa sia. Ricordiamocelo, quando la difendiamo con le unghie e con i denti.

Nel sistema di pensiero che privilegia la forma sulla sostanza, non è un problema che un bancarottiere (che ha scontato la sua pena!) senza alcuna competenza detti la linea sulla politica fiscale al più potente partito italiano e, allo stesso tempo, in barba a qualsiasi considerazione sul portato culturale e pedagogico della condotta pubblica, quello stesso partito si intesti una legge di dubbia efficacia sull’educazione civica. Come si promuove il senso civico? Con una legge!

Nello stesso sistema di pensiero, non è un problema se si smantella uno dei pochi modelli di integrazione esistenti e funzionanti nel Paese; non è un problema se la lezione di rispetto della legge alle ONG viene impartita sulla pelle di 40 disperati. La legalità deve prevalere, anche se va in conflitto con la realtà in ogni istante. E l’elenco sterile potrebbe continuare (parlando di scandali universitari, ad esempio).

Strumenti, non fini

Quello che è accaduto è che, nel tempo, anche un grosso pezzo di società “sana” si è fatto imbambolare dalla retorica della legalità e dal paradigma dell’ipocrisia. Anche buona parte dei progressisti ha cominciato a parlare di “rispetto delle regole prima di tutto”. Ne sono immagine, proprio nei giorni della Sea Watch 3, le dichiarazioni di solidarietà di Roberta Pinotti (e di Nicola Zingaretti?) alla Guardia di Finanza. Nonché, ovviamente, le derive grilline che un tutto un movimento civile nato a sinistra ha ormai abbracciato da anni.

La questione sarebbe tuttavia elementare. O meglio, richiede l’elementare capacità di tenere insieme elementi solo apparentemente contraddittori. Insomma, la consapevolezza che la realtà non è lineare come la favola di Cappuccetto Rosso. Senza sfociare per forza in complesse sfumature alla portata solo dei radical chic che abitano in centro.

Proviamo a mettere in fila un paio di concetti base.

  1. La legge è uno strumento che disciplina i rapporti sociali. In quanto tale, si deve adattare a questi rapporti. Serve ad avere regole chiare, scritte, impersonali, pre-determinate. In particolare in caso di conflitti. Soprattutto, serve ad evitare che ad imporsi sia il più forte (il più ricco, il più potente politicamente, il più violento, …). A prevalere devono essere dei principi coerenti di “giustizia” decisi collettivamente (nei limiti di principi superiori inviolabili e inderogabili).
  2. Nel momento in cui la legge diventa un fine, e in particolare un fine slegato dai bisogni umani, essa perde di senso. Non solo, vede anche ribaltato il suo ruolo: la regola permette proprio al più forte di imporsi, perché il più forte è meno vincolato dal bisogno ed è più capace di seguire la regola – se lo vuole –, qualsiasi cosa essa imponga. Ciò è particolarmente vero se, magari, è proprio il più forte a scrivere la regola!
  3. Il rispetto della legge è fondamentale in una società, in particolare nell’accezione (1). Senza rispetto della legge c’è barbarie, anarchia. Vince il più forte. Ma ciò non esclude la disobbedienza civile, ovvero il caso in cui si sceglie di non rispettare una legge che si ritiene ingiusta, assumendosene tutte le conseguenze e battendosi per cambiarla.
  4. “Ribellioni” allo Stato di diritto come quelle perpetrate dalle organizzazioni criminali, dagli evasori, da corrotti e corruttori, da chi fa scempio della cosa pubblica, non costituiscono disobbedienza civile ma volontà autoritaria: il più forte, per sua convenienza, rispetta solo le regole che egli stesso si auto-impone. Non fanno eccezione i casi di piccola illegalità diffusa, in cui “il più forte” è semplicemente chi è nella posizione di comodo di poter non rispettare una regola (ad es. un lavoratore autonomo rispetto a un lavoratore dipendente, che non può evadere determinati contributi e tasse). Tutto ciò senza nemmeno prendere in esame considerazioni di efficienza economica, troppo complicato.
  5. Insistiamo: la legge è uno strumento che disciplina i rapporti sociali e, in quanto tale, si deve adattare a questi rapporti. Ciò significa che:
    • i rapporti sociali e i bisogni umani vengono logicamente prima; ad esempio, la legge sul divorzio assume senso in funzione del bisogno umano di rompere un certo tipo di rapporto sociale (il matrimonio), perché è venuto meno il consenso e/o il benessere delle persone coinvolte;
    • questo “adattamento” richiede tempo e analisi, perché la discussione collettiva richiede tempo e analisi. Ciò implica che qualsiasi sovrastruttura (legale, amministrativa, corporativa, burocratica, ecc.) che sia di sostanziale ostacolo, che faccia perdere tempo prezioso, può far perdere completamente di senso all’esistenza stessa della regola. O, magari, servire ancora una volta i bisogni del più forte, spesso a guardia di tali sovrastrutture.

Qualcuno, ormai più di 70 anni fa, è riuscito a esprimere tutto ciò in poche semplici parole. Anzi, in tre parole: di fatto ed effettiva.

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Costituzione della Repubblica Italiana, articolo 3, secondo comma.

Si era cercato con quelle tre parole di scardinare il paradigma dell’ipocrisia. Si era cercato di dire “basta, andiamo al di là delle semplici regole, della forma; andiamo alla sostanza, badiamo ad ottenere davvero il benessere che desideriamo.” Si è provato. In più di 70 anni, ormai, quel tentativo di ribaltamento culturale non ha ancora dato quasi nessuno dei suoi frutti.

Perché si lotta(va) per la legalità?

È inutile nascondersi dietro a un dito: la lotta per la legalità l’abbiamo fatta noi progressisti, la facciamo ancora in qualche modo. Nel mio caso personale, ad esempio, l’esperienza in Libera è stata fondamentale. Tuttavia, mi posso vantare di non aver mai ceduto al fascino (?) dei vari Di Pietro, De Magistris, Ingroia, Cantone, eccetera eccetera e fin troppi eccetera.

Eppure c’è/c’era un paio di motivi per cui si porta(va) avanti una battaglia sulla scia di questa parola d’ordine, “legalità”. Non era solo per dire: rispettiamo la legge perché in realtà la legge è buona, serve ad evitare che ad imporsi sia il più forte. C’era anche questo, sicuramente, soprattutto nel lavoro con le scuole. Ma si trattava più di una prospettiva a cui tendere che di un punto di partenza.

Le considerazioni di fondo – almeno da parte mia e di buona parte dei compagni che ho avuto la fortuna di incontrare in questo percorso – erano due:

  1. Una considerazione meramente strumentale, appunto. Di fronte a determinati bisogni (ad es. quello di riappropriarsi di spazi che erano stati tolti alla società dai mafiosi), la legge era l’attrezzo più efficace per agire. Serviva intervenire all’interno di processi già incardinati nel sistema giuridico (ad es. la decisione sulla destinazione dei beni confiscati) per raggiungere un fine sociale. La legge 109/1996 è stato un chiaro successo da questo punto di vista, purtroppo raramente replicato e replicabile.
  2. Una considerazione di ordine storico-politico. Nel momento in cui le stragi prima e il berlusconismo poi mettevano fortemente in discussione la tenuta costituzionale del Paese – grazie al profondo consenso che incontravano! non solo grazie al potere accumulato! –, il riferimento ad alcuni pilastri in termini di diritti è stato – non sempre, ma almeno in qualche caso – un’àncora che ha permesso di tenere botta. Un punto di ri-partenza. Di fronte alla violenza mafiosa e allo scempio berlusconiano (ancora in atto), nella Costituzione e in alcune leggi che ne richiamano lo spirito si poteva trovare una “pezza d’appoggio” in difesa non tanto delle regole in sé, ma di un assetto sociale. Fatto non solo del rispetto della Magistratura (come potere autonomo! non come sistema di potere!), ma anche di sanità, scuola, cultura, tutela dell’ambiente, eccetera eccetera e fortunatamente ancora eccetera. Si diceva: di fronte alla barbarie, alla caduta inesorabile e sempre più verticale della cosa pubblica, proviamo a ripartire dal rispetto di alcuni valori (prima) e regole (poi) fondamentali. Dalla difesa di alcune forme di benessere, soprattutto. Anche in questo caso abbiamo vinto qualche battaglia, ma stiamo perdendo la guerra.

Questo era il senso di quella stagione.

Ma questo senso si è perso e, forse, non ha mai davvero giustificato l’uso di quella parola d’ordine.

Una buona notizia

Una delle poche buone notizie, in questo periodo, è che forse quella stagione cominciamo a mettercela alle spalle. “Legalità” non può più essere una parola d’ordine. Forse, di fronte agli scandali, a sentenze impossibili da condividere (le “cadute accidentali” di Stefano Cucchi…), di fronte ai risultati dei magistrati al potere che non arrivano (Cantone…), ce ne siamo accorti, e si comincia a cambiare idea.

Emblematico è proprio il caso di Libera. Alla scarcerazione del Capitano Rackete, l’associazione pubblica un post Facebook in cui, sfruttando giustamente il proprio nome, esclama: “Carola Rackete è libera! LIBERA! Ha agito per salvare vite umane”. Puntuale arriva il commento del sindaco leghista di un piccolo comune del lodigiano:

Sono amareggiato vedendo questo post; lo sono essendo iscritto a Libera, lo sono in quanto amministratore locale che vede mortificato l’impegno profuso contro le mafie da una foto troppo di parte. Bene ha fatto don Luigi a scrivere la sua lettera a difesa delle vite umane, bene farebbe Don Luigi a far togliere questa foto di una persona che, in ogni caso, non ha rispettato né la legge né tantomeno le Forze dell’Ordine. Legalità a questo punto cosa significa?

Enrico Vignati

Niente, Enrico. Hai ragione. Niente.

Legalità non significa niente.

La legalità è morta. Viva la legalità!


[F.O.]
Featured image: Adrian Salamandre (2018),
The legality of immorality

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