Qualche anno fa la celebre serie di spot del Gratta e Vinci utilizzava il claim: “Ti piace vincere facile?“. Ultimamente quello slogan mi è spesso tornato in testa, in discussioni legate a temi di politica, economia, attualità.
Ne è nata una riflessione sul perché sia fondamentale, in particolare oggi, avere una cultura del gioco, e soprattutto integrare in tutto e per tutto il gioco all’interno dei percorsi di apprendimento.
Da economista appassionato di conoscenza e di istruzione, credo siano quattro i motivi fondamentali per cui il gioco, il gaming, debba essere centrale nell’apprendimento.
1. Divertimento
Parto dalla motivazione più ovvia e banale, spesso ripetuta insistentemente (ma a ragione) dai pedagoghi, soprattutto negli ultimi 20-30 anni (vedi qui). Ovvero: imparare giocando si può. Anzi, di più: se possibile, meglio imparare giocando, divertendosi.
Ai nostri occhi di Millennial (?) questa prospettiva può sembrare scontata, ma così non è. L’idea che l’apprendimento debba essere sempre e solo sofferenza è presente e vivo – e ritorna prepotentemente, ad ondate reazionarie – sia nella mente di molti insegnanti e familiari, sia – ed è più preoccupante – nella testa di molti studenti: “non voglio imparare, perché imparare è soffrire”.
E invece ci sono modi divertentissimi per imparare. Peccato che, molto spesso, chi si pone l’obiettivo di “insegnare divertendo” tenda a fallire miseramente…
Ma il punto rimane. È vero, ci sono molti casi in cui l’apprendimento è sofferenza, ripetizione, esercizio meccanico e noioso, assolutamente non divertente. Imparare, cercare di capire, è spesso frustrante, avvilente. Prima di tutto perché spesso non si riesce, non tutto viene al primo colpo, e non tutto funziona anche senza aver capito. Imparare richiede sforzo.
Tuttavia, in molti altri casi (chissà qual è il bilancio), più ci si diverte, più si impara. Si impara meglio se ci si diverte, se si gioca. O, addirittura, si impara solo se si gioca.
Pensandoci bene, ricordando gli anni spesi sui banchi di scuola, per molti potrebbe essere una rivoluzione copernicana niente male.
2. Cooperazione e Strategia
Andando oltre le banalità già sentite, c’è un secondo motivo per cui è fondamentale che si impari giocando: nel gioco la dimensione dell’altro è sempre presente.
Se c’è un modo semplice ed efficace per trasformare l’apprendimento in un’attività collettiva, quello è il gioco. Si gioca con gli altri, perché ci sono altri insieme a me. Se gioco da solo, in qualche modo è come se non stessi veramente giocando.
È vero, ci sono giochi che richiedono un solo giocatore: su tutti, il solitario. Ma sono eccezioni e, in molti casi, anche le attività di gioco individuale (nei videogiochi, ad esempio) sono attività che implicano l’esistenza, la considerazione di un “altro” virtuale.
Ciò non è sempre vero nell’attività di studio individuale. È molto più difficile percepire il rapporto di alterità e la soggettività nell’autore di un libro di testo, rispetto a quella del “computer” che funge da avversario in un videogame. Come dire: ogni gioco ha una sua narrativa, mentre non ogni libro è letteratura.
Sono due i motivi per cui è fondamentale crescere (fino all’età adulta, e oltre) accompagnati dalla consapevolezza dell’altro:
- Con gli altri si coopera. Nessun uomo è un isola, ed è fondamentale saper interagire con chi fa parte (o potrebbe far parte) della nostra squadra. Non si lavora da soli, non si vive da soli, non si risolvono i problemi da soli, generalmente;
- Interazione significa strategia. Strategia significa che il mio comportamento non tiene conto solamente dei miei obiettivi, delle mie capacità, dei miei incentivi, delle mie scelte, bensì tiene conto anche dell’esistenza dell’altro, dei suoi obiettivi, delle sue capacità, dei suoi incentivi, delle sue scelte. Compagno o avversario che sia.
Senza capacità di cooperare e di agire in maniera strategica, un individuo non potrà mai essere niente di più che il protagonista di una (brutta) favola per bambini.
3. Creatività
Giocare insegna ad essere creativi, è abbastanza intuitivo. Tuttavia, l’intuito di molti di fronte al concetto di creatività applicato al gioco ricorre a caratteristiche del gioco quali la presenza di colori e strumenti insoliti, o di situazioni immaginarie per cui i giocatori devono ricorrere alla fantasia al fine di immedesimarsi.
In realtà, la creatività del gioco è strettamente legata all’abilità di risolvere problemi. Ogni gioco è composto strutturalmente da decine, centinaia, migliaia di “situazioni di gioco” differenti, che si generano dall’interazione delle n variabili che costituiscono ogni gioco. La capacità generativa del contesto ludico è molto più ampia di quella del semplice discorso narrativo o della problematizzazione scientifica (dato lo stesso livello di complessità): nel gioco la narrativa e la logica si uniscono e arrivano a generare numerose e spesso imprevedibili combinazioni di scenari.
Questo pone il giocatore di fronte a situazioni sempre nuove, in cui solo facendo ricorso a capacità creative il problema fondamentale del gioco – giungere alla vittoria – può essere risolto. Ciò perché: a) serve creatività per adattare strutture già conosciute a problemi nuovi; b) serve creatività per generare nuove strutture risolutive.
Come tutto ciò sia fondamentale per qualsiasi processo di apprendimento, per fini di pura “costruzione del sé” o di generazione di “capitale umano”, è conclusione tanto ovvia da non necessitare ulteriore approfondimento.
4. Fattibilità
Infine, la ragione per me più importante. Se non in termini valoriali/di priorità, in quanto è dalla motivazione #4 che scaturisce tutto il ragionamento di cui sopra.
Saper giocare significa saper vincere (lealmente) con ciò che il gioco mette a disposizione. Significa saper risolvere un problema (una serie di problemi, in realtà) sulla base delle risorse disponibili.
Non si esce dal tracciato, non si va oltre le regole, gli strumenti, le armi, i poteri, i personaggi, i punti a disposizione. Si gioca all’interno di un sistema di regole (generalmente) ben definito. Se capito su una casella con un albergo, a Monopoli, non posso tirare fuori l’asso di briscola e dire “HA! Sono esentato!”. Così come non posso inventare su due piedi infinite risorse con cui pagare i miei debiti. Tutto ciò appartiene al mondo dei “trucchi”, che è un’evidente (e a suo modo trasparente) eversione dal gioco.
Non solo: nel gioco, come nella vita reale, il sistema di regole non vive di vita propria, ma viene fatto valere (enforced) dal comportamento degli altri giocatori. Il libretto delle regole impone uno standard, ma i giocatori tendenzialmente possono deviare, derogare. E, soprattutto, la punizione imposta dagli altri giocatori sotto forma di “esclusione sociale” può avere tratti peggiori (e risultare più deterrente) di qualsiasi penalità prevista dal creatore del gioco.
Il gioco è la massima e allo stesso tempo più semplice espressione di creatività al servizio del realismo più schietto. Puoi fare tutto, puoi inventarti di tutto, spesso devi farlo per vincere, ma non puoi rimuovere i vincoli che ti vengono imposti. Alcuni saranno mobili, alcuni solo apparenti, ma puoi fare solo ciò che è fattibile (sic).
È sempre impressionante vedere tutto ciò così chiaramente rappresentato quando s’interagisce con un bambino. Da bravi re dei giochi, i bambini sono generalmente capaci (molto più capaci degli adulti, in certi casi) di individuare il limite tra ciò che è permesso e ciò che non è consentito in un gioco. È la classica brutta figura che fanno gli adulti di fronte a un piccolo giocatore: si fanno prendere la mano, lasciano la fantasia a briglia sciolta, fino a che il bambino dice, con tono serissimo: “Ma no, questo non si può fare”.
Dietro a quell’espressione, così asciutta e che non lascia scampo, c’è un chiaro giudizio morale, un giudizio implicito e negativo: “Pensi di poterla fare franca così, rimuovendo i vincoli che ti sono imposti? Pensi di poter prendere la scorciatoia, di far finta che le regole del gioco non esistano? Insomma: Ti piace vincere facile?“
[F.O.]
Featured image: Jeremy Huet, Pixelart