Sul primato nazionale – Di cittadinanza e fascismo

Appunti su un modo di vedere il mondo (e la cittadinanza) – Commenti a un articolo di Lorenzo Mosca apparso l’8 luglio 2017 sul magazine online Il Primato Nazionale, dal titolo Cittadinanza: da simbolo di identità a legittimazione della sostituzione di popolo (testo in corsivo, commenti in corpo):

C’era una volta la cittadinanza, concetto che affonda le sue radici nell’antica Roma. Il “civis romanum” era l’appartenente della “civitas” che portava su di sé l’onore e l’onere della vita politica e militare. Poteva quindi eleggere od essere eletto, e giurava di difendere con le armi l’Urbe. Nasce quindi come status di appartenenza ad una comunità biologico culturale, avente coscienza di sé e destino comune.

Dal primo paragrafo è già chiaro l’intento dell’autore: sostenere che la cittadinanza non è un diritto qualunque, ma è questione di sangue, onore e appartenenza a una “comunità”, da cui derivano diritti e (soprattutto) doveri.

Ma visto che l’autore vorrebbe avere un approccio storico*, proviamo ad essere rigorosi sotto questo punto di vista, ché la superficialità non fa mai bene.
Innanzitutto il concetto di “cittadinanza” non nasce a Roma, ha origini più antiche e trova la sua prima espressione compiuta nella civiltà greca. E, sebbene la cittadinanza greca e quella romana avessero caratteristiche differenti, ci sono dei tratti in comune.

Il primo riguarda proprio l’appartenenza alla comunità (“coscienza di sé e destino comune”). Secondo l’antico concetto di cittadinanza, infatti, molti “appartenenti alla comunità” (per non dire “membri essenziali della comunità”) – ovvero le donne, i bambini e soprattutto gli schiavi – erano esclusi dalla cittadinanza o godevano di uno status di cittadino differenziato, senza dubbio inferiore. A Roma, ad esempio – dove era considerato cittadino a pieno titolo l’individuo maschio adulto e libero –, il figlio di una cittadina e di uno straniero non era cittadino romano, mentre il figlio di un cittadino e di una straniera sì (fonte). Insomma, anche senza far riferimento ai diritti politici – che, come è noto, saranno dominio femminile e universale solo nel Novecento –, sangue e visione comune non bastano, serve appartenere alla comunità giusta. Motivo per cui gli antichi concetti di cittadinanza (e di democrazia) vanno presi con le molle quando si parla di democrazie moderne, imperniate sull’idea che non esistano cittadini di serie A e cittadini di serie B.

La seconda questione riguarda il cosiddetto “onore” – concetto che sfugge a qualsiasi razionale definizione (uno schiavo che si spezza la schiena sulla terra non è un uomo d’onore, giusto?). Saranno infatti proprio i romani – più che i greci – i primi ad utilizzare la cittadinanza a scopi politici (fonte). I diritti che essa garantiva, infatti, furono più volte utilizzati come “moneta” per tenere insieme un impero sconfinato e integrare, per quanto possibile, le nuove popolazioni che venivano inglobate sotto il potere di Roma o che, a causa degli imponenti fenomeni migratori, si ritrovavano in territorio romano. E non si trattò di un fenomeno legato solamente alla fase di declino dell’Impero – come si potrebbe sostenere per la Constitutio Antoniniana di Caracalla (212 d.C.), che unificò lo status di tutti gli abitanti nella condizione di sudditi –, bensì caratterizzò, da sempre, lo stesso rapporto fra Roma e il resto della penisola italica, i cui abitanti furono riconosciuti come cittadini solo nell’89 a.C. (a sud del Po) e nel 49 a.C. (a nord del Po).

Non dimentichiamo, poi, che accanto ai motivi politici c’erano quelli strettamente economici. I più ricchi, infatti, potevano semplicemente “comprare” la cittadinanza spendendo una cospicua parte del patrimonio personale per costruire una casa a Roma, portando a Roma frumento per un certo numero di anni, o macinando grano a Roma per anni (fonte). Veri e propri incentivi di politica economico-agricola.

In sintesi: se si vuole prendere la Storia come modello, forse meglio studiarla a fondo, prima. Si potrebbe scoprire in anticipo che quel modello ideale – di sangue, onore e sentire comune – non è mai esistito. È arrivato a noi solo mediato dalla retorica degli antichi, dei moderni e, soprattutto, del fascismo italiano.

Il concetto, rimasto carsicamente sepolto nelle increspature della storia, tornò prepotentemente alla ribalta con la Rivoluzione Francese del 1789, quando il governo rivoluzionario sostituì al suddito il cittadino, e introdusse per la prima volta la coscrizione obbligatoria nell’esercito. Il cittadino dunque, per lo meno a livello formale, tornò ad essere custode e difensore. Custode perché idoneo alla vita politica attiva e passiva, difensore perché disposto a dare la vita per la nazione.

Anche qui, al di là della retorica: il concetto di “cittadinanza” non è rimasto sepolto fino al 1789. Molti, ad esempio, hanno interpretato la Magna Charta (1215) come il primo documento fondamentale per il riconoscimento universale dei diritti dei cittadini. Essa va inoltre inscritta nel quadro di una giurisprudenza feudale in cui la concessione di privilegi (libertates) da parte di sovrani a comunità o sudditi, offre altri esempi di natura analoga (Federico Barbarossa alla Lega Lombarda nel 1183, il re Andrea II d’Ungheria ai suoi vassalli nel 1222). Sempre in Francia, poi, il cosiddetto “ius soli” vigeva già dal 1515 (fonte), permettendo ai nati sul territorio dello Stato di acquisire lo status di cittadini (sudditi).

Questo ci permette nuovamente di rimarcare il pericolo di confondere la cittadinanza moderna con quella pre-moderna, ovvero quello di confondere ciò che appunto andrebbe meglio definito – in ottica moderna – come privilegio della cittadinanza con quello che oggi definiamo diritto (soggettivo) di cittadinanza. Mentre il primo, infatti, si basa su logiche spesso arbitrarie, sull’appartenenza a determinati gruppi sociali, il secondo ha un carattere tendenzialmente universale e indifferenziato, ai cui limiti corrisponde la volontà degli Stati moderni di assicurare diritti non solo ai cittadini, ma a tutti gli uomini e le donne.

Anche qui la retorica risente, a discolpa dell’autore, di alcune lacune del sistema scolastico e della didattica italiani. Seguendo la narrativa (illuminista!) che allinea: Roma / declino di Roma / Medioevo (secoli bui) / Rivoluzione francese, non si può che dimenticare come i secoli precedenti ci abbiano lasciato in eredità sia le elaborazioni feudali sul canovaccio del diritto romano sia, soprattutto, la tradizione anglosassone e il giusnaturalismo. Va da sé che il sillogismo che segue sotto è al più superficiale, privo di solido fondamento.

Il concetto moderno di cittadinanza, quindi, è legato in maniera indissolubile alla suprema entità giuridica ed etica di un popolo che si fa nazione, lo Stato. Il quale, nell’odierna epoca della dissoluzione, viene sistematicamente vituperato diffamato e scientemente destrutturato, reo di essere genesi di ogni negatività. Stato che si vuole superato, in nome dell’unione europea, della globalizzazione e dell’assenza di frontiere, tendenze che vengono sempre delineate come naturalisticamente determinate, quasi fossero eclissi di sole a cui noi comuni mortali non potessimo che rimanere passivi spettatori, negandone quindi il carattere di fenomeni antropici, come tali soggetti alla volontà e alla capacità umane. Gli stessi fenomeni sembrano racchiudere, in una sulfurea “coppia di fatto”, logiche economicistiche di libera circolazione dei fattori produttivi, uomini capitali e merci, ed echi di internazionalismo proletarista degenerante in cosmopolitismo ingenuo e superficiale. Tutti insieme appassionatamente contro i popoli e gli stati nazionali, quando si dice eterogenesi dei fini.

Del legame indissolubile abbiamo già parlato, e vabbè. Analizziamo in breve altri concetti, sempre cercando di andare oltre la retorica da Istituto Luce:

1. Lo Stato etico – è interessante vedere la definizione di nazione come “suprema entità etica”. Ancora una volta, infatti, bastano 3 parole per cancellare del tutto la tradizione giusnaturalista su cui si fonda gran parte del concetto di Stato di diritto moderno. Ad essa si sostituisce una visione puramente hegeliana – secondo Hegel lo Stato è “sostanza etica consapevole di sé” – non a caso ripresa dal filosofo neo-idealista e fascista Giovanni Gentile (v. Fondamenti della filosofia del diritto, 1916). Infatti, mentre Hobbes fa del Leviatano la (temibile) garanzia dell’eticità dello Stato – fondato su un contratto tra governanti e governati, che sacrificano parte della loro libertà in cambio di regole e protezione –, e perciò vede nella struttura nazionale un limite alla naturale libertà umana, per Hegel lo Stato è l’espressione più elevata dell’eticità, è unità di diritto astratto e moralità, è una vera e propria totalità organica vivente. Tutti concetti, per farla breve, alla base dello Stato assolutista e totalitario novecentesco;

2. Fenomeni storicamente delimitati – sebbene l’autore parli di “dissoluzione” – come se negli ultimi anni si stesse scardinando un modello millenario –, molti dei concetti che egli cita sono molto giovani e costituiscono di fatto una parentesi nella Storia. Lo Stato-Nazione, ad esempio, nasce nel XVII secolo con caratteri molto eterogenei – non sempre il “popolo si fa nazione”, come vorrebbe la retorica nazionalista/populista/fascista –, e si diffonde in Europa solo nel XIX secolo, quando i moti rivoluzionari portano alla nascita dell’assetto nazionale che, più o meno, viviamo tutt’ora. Ma lo Stato-Nazione si ibrida immediatamente, perché presto – già nel XIX secolo – tornano gli Imperi, presto nasce il socialismo (e con lui lo Stato socialista), presto nascono gli Stati totalitari (in qualche modo “degenerazione” dello Stato-Nazione, con caratteri differenti), presto arriveranno Stati federali più complessi dei modelli precedenti.
Lo stesso discorso vale per “l’assenza di frontiere” (glissiamo per ora sulla globalizzazione, che invece non è affatto un fenomeno nuovo, sebbene si presenti oggi – ovviamente – con caratteri differenti). La frontiere che conosciamo oggi non hanno nulla di tradizionale: sono un prodotto del Novecento e della Prima guerra mondiale (vedi qui e qui). Fino a quel momento, infatti, non era esistito alcun controllo dell’immigrazione. C’erano tariffe doganali, tasse d’ingresso in molti casi, ma i controlli alle frontiere, la rispondenza a determinati requisiti, la necessità di documentazione (e quindi di cittadinanza) sono fenomeni relativamente molto recenti, figli del mondo che il primo conflitto globale e i fenomeni migratori di inizio XX secolo ci hanno consegnato (e in cui, tra l’altro, l’Italia era tra i Paesi vittime di queste misure).
Anche in questo caso, quindi, ci si trova a difendere qualcosa che è tutto tranne che tradizionale, bensì risulta episodico, estremamente contestuale e, soprattutto, risultato di assunti pienamente discutibili.
Ed è anche bene ricordare: Stato e Nazione sono due concetti diversi. Il primo, soprattutto, è ben lontano dall’essere superato.

3. Il rosso-brunismo di ritorno – mi impressiona molto osservare il parallelo tra il linguaggio che usa l’estrema destra (in questo caso) e quello che invece usa l’estrema sinistra (vedi qui, ad esempio). Una riedizione del fenomeno rosso-bruno che pensiamo ogni volta di esserci lasciati alle spalle e che, invece, rispunta sempre (per la sorpresa non di tutti).
Un fenomeno a cui, tuttavia, va riconosciuta una (e forse una sola) ragione: quella di sottolineare il madornale inganno della retorica progressista. Ha ragione chi dice che molti processi – Unione Europea in primis – sono stati presentati come inevitabili, naturali evoluzioni di una storia che si muove in maniera meccanica, in cui gli uomini non hanno che piccola parte (vedi qui, ad esempio). Non è così, e ciò è doppiamente grave: oltre ad aver ingannato “le masse”, le classi dirigenti alla testa di questi progressi hanno perso un’occasione, quella di far scegliere ai popoli di partecipare a processi che, se (e solo se) ben governati (vedi qui), possono andare a loro vantaggio.

Ius sanguinis e ius soli

Nel corso dell’età contemporanea, soprattutto in Europa ma non solo, si formarono stati nazionali la cui base legittimante era la nazione, intesa come comunità organica con coscienza di sé, volontà politica, e peculiarità identificanti: storia, razza, terra, cultura, lingua, religione, tradizioni. Discende chiaramente da ciò, che quanto più vi fosse stata omogeneità tra le varie caratteristiche, tanto più la nazione sarebbe stata solida e riconoscente a vicenda uno nell’altro come facente parte della medesima collettività, che vive e conduce storicamente la propria esistenza in dato territorio, la “Patria”, terra dei propri padri. Proprio per via delle premesse di cui sopra, l’onore di essere parte di questa comunità di popolo, la cittadinanza appunto, era ed è trasmesso ai propri discendenti per linea di sangue, “ius sanguinis” appunto.

Questo paragrafo è un ottimo esempio di “favoletta nazionalista”. Manca solo il “c’era una volta…” all’inizio. Ancora una volta ritornano concetti di puro hegelianismo (la “comunità organica con coscienza di sé”), il riferimento a “peculiarità identificanti” del tutto parziali (la razza?), il teoremino sociale semplice semplice (omogeneità = forza), il legame con l’onore di far parte di questa comunità (e quindi un’implicito riconoscimento della superiorità della mia comunità rispetto alle altre). Anche qui due cose interessanti, che richiamano ancora una volta la cultura fascista:

1. L’assenza di conflitto sociale e della dimensione economica – a questo il fascismo fece sempre estrema attenzione: l’Ordine sociale prima di tutto, non può esistere conflitto fra membri della stessa comunità. Il conflitto va sedato, sempre. Perché se abbiamo la stessa storia-razza-terra-cultura-lingua-religione-tradizione il nostro conflitto è immotivato. Perché? Perché il fascismo è l’antitesi di due ideologie: quella liberale e quella socialista. Essendo l’antitesi del liberalismo, l’individuo è appiattito sulla sua identità nazionale, non è un universo dotato di ambizioni, idee, aspirazioni, di tensioni di liberazione verso quella stessa identità così strettamente e rigidamente definita; essendo l’antitesi del socialismo, nega e impedisce che possa nascere un conflitto sulla base della disuguaglianza di classe, di ceto, di diritti. E infatti la dimensione economica non è inclusa nel “vettore” che, secondo l’autore (e secondo i suoi predecessori), definiscono l’organicità della comunità, quella che oggi definiremmo “coesione sociale”. Non c’è problema se esistono gli infinitamente ricchi e gli infinitamente poveri, Nord e Sud, città e campagna, siamo tutti sotto l’ombrello della Nazione. E ognuno pensi bene di rimanersene così;

2. A noi piace il sangue – da questo paragrafo si inizia a parlare di sanguinis vs soli, sangue contro terra. Eppure anche la terra è identità, fa parte dell’elenco. Però no, si decide che il sangue conta di più. La terra può essere identità solo se è tua per discendenza, solo se puoi vantare un diritto di proprietà su di essa. Poco importa se siamo tutti figli di Enea, che divenne padrone di una terra che non era affatto sua. La proprietà, lo status quo, viene prima. Non manca anche una certa passione (sempre di stampo fascista) perciò che rimanda ai “valori” della forza e della violenza: il sangue, l’onore, l’appartenenza alla milizia. Come ogni favola, è tutto già sentito. E, purtroppo, sappiamo ogni volta come va a finire.

Esiste tuttavia anche un altro criterio di trasmissione della cittadinanza, lo “ius soli”. Che prevede, nella sua accezione classica, l’automatica cittadinanza per una qualsiasi persona, anche straniera, che nasca nel territorio di un dato Stato. Questa norma è minoritaria a livello mondiale, essendo praticata infatti in soli 33 stati, soprattutto situati nel continente americano, con gli USA a fare da capofila. Alcuni altri, circa una trentina, possiedono uno “ius soli temperato”, che rappresenta una posizione intermedia, e tra queste, in Europa, vi sono solo Francia, Regno Unito e Germania. Se volessimo però tracciare un quadro di tendenza a livello globale, negli ultimi decenni si è via via ridotto il numero di stati che adotta lo “ius soli”, con buona pace degli odiatori della propria nazione che hanno la velleità di scandire l’agenda d’Italia sulla base del “così fan tutti”. Per coloro che invece continuano a fare indebiti confronti con gli stati che possiedono lo ius soli classico, decantandone lodi e (presunti) risultati ottenuti, ci permettiamo di far sommessamente notare che quelle lande del nuovo mondo sono state tutte più o meno caratterizzate storicamente da queste fasi: presenza di territori immensi, arrivo di popolazione allogene caucasiche, sterminio degli abitanti autoctoni, bassissime densità di popolazione, richiesta manodopera per attività economiche intensive, cittadinanza come incentivo. Se volessimo fare confronti con l’Italia, alla luce della nostra densità di popolazione ed economia, dovremo per prima cosa essere sterminati per liberare spazio e potenzialità. A onor del vero ciò sta avvenendo purtroppo per mano nostra, ma questa è un’altra storia.

Curioso il criterio con cui si “pesano” gli Stati con lo ius soli. “Solamente” 33 Stati, ovvero:  Stati Uniti, il Canada, quasi tutta l’America Latina, Francia (dal 1515!), Germania, Irlanda e Regno Unito. Quindi 5 degli 8 Paesi più ricchi del mondo (tolti noi, la Russia e il Giappone), e un continente (quasi) intero.

È vero: la storia c’entra molto. Si tratta di regioni che hanno vissuto fortissime fasi di immigrazione, e proprio per questo hanno deciso che la loro identità non poteva più essere legata solamente al sangue, che i confini della comunità nazionale sono meglio definibili facendo riferimento alla terra, l’elemento che oggi garantisce coesione sociale a chi, di fatto, nasce e vive con la stessa storia-cultura-lingua (religione e tradizione, grazie al cielo, hanno un ruolo minoritario). Sono questi i presupposti su cui, oggi, si propone lo ius soli in un Paese come l’Italia, tornato dopo secoli ad essere anche terra d’immigrazione.

Sullo sterminio non c’è nemmeno da commentare, c’è una logica da “cambio di stagione” che nemmeno all’asilo (“devo far spazio per i vestiti nuovi, quindi devo buttare quelli vecchi”). Però è importante una piccola nota: lo sterminio di massa (che si riferisce alle Americhe, non a tutti gli Stati citati) venne compiuto proprio in nome della superiorità dei valori cristiani e delle tradizioni e delle nazioni europee (vedi qui). Fu sterminio, e lo fu proprio per la volontà di affermazione violenta della propria identità.

Il caso italiano: demografia e immigrazione

Ma perché in Italia la modifica della legge sullo ius sanguinis sarebbe l’accelerazione di suicidio e fornirebbe legittimità giuridica alla sostituzione di popolo?

Ottima domanda. Per nessun motivo, in effetti. Fine dell’articolo.

Se invece vuoi leggere i commenti a un’analisi infondata, continua pure.

Anche in questo caso dobbiamo rifarci all’analisi del prima, dell’oggi, e del domani. Come abbiamo esposto, lo stato nazionale si fonda sul concetto di popolo, e la cittadinanza ne rappresenta lo status giuridico per diventarne parte politica e militare attiva. Ovviamente la funzione dello Stato, è quella di farsi difensore e propugnatore dell’interesse della nazione, salvaguardandone, tutelandone ed elevandone l’identità, l’indipendenza, lo spirito, la prosperità, lo sviluppo, la salute, la cultura, i rapporti con le altre nazioni. Uno degli obiettivi più basilari è rappresentato dalla condizione di esistenza presente e futura, che si traduce in una piramide demografica triangolare, in cui la base, formata dalle nuove generazioni, sia necessariamente maggiore del vertice, formato dalle fasce più anziane. Uno stato che non se ne occupi, o non riesca, o peggio non voglia, sarà, sic et simpliciter, uno stato destinato all’estinzione biologica. Crediamo che il problema demografico del nostro popolo sia sotto gli occhi di tutti, e non sarà questa la sede per analizzarne le cause culturali sociali economiche che hanno portato alla nostra, assolutamente non invidiabile, piramide demografica rovesciata.

Continuiamo con l’hegelismo for dummies: “ovviamente” (!) secondo l’autore lo Stato deve “elevare” l’identità, l’indipendenza e lo spirito (?) della nazione. E invece no, o comunque non secondo me, non secondo tanti, non secondo il modello di Stato di diritto moderno. Vale per lo Stato etico, per lo Stato fascista, per lo Stato totalitario, non per noi.

In secondo luogo, è triste notare che dopo gli storici e i filosofi, anche i demografi debbano rivoltarsi nelle tombe. Proviamo così, partendo dalle basi:
piramide rovesciata = decrescita demografica;
piramide regolare = boom demografico;
cilindro o “botte” = stabilità/stagnazione demografica.
La demografia è, da pochi secoli, soggetta a enormi fluttuazioni, ma le “piramidi” non sono mai equilibri di lungo periodo. Siccome la popolazione non può crescere indefinitamente (per ovvi motivi), è normale che l’equilibrio possa essere o quello della stabilità (il “cilindro”) o quello della fluttuazione fra boom e decrescita. Il secondo modello, che stiamo oggi osservando in azione, è quello che permette di avere una crescita economica sostenuta, grazie al cosiddetto “dividendo demografico” in cui:
1. grazie a uno stimolo/shock esogeno (ad es. scoperte mediche che abbattono la mortalità infantile, massicci sussidi per i nuovi nati, welfare familiare) aumenta la natalità;
2. nel giro di una generazione i nuovi nati entrano sul mercato del lavoro, pagano i contributi ai (relativamente) pochi anziani e finanziano un welfare ricco;
3. la generazione del boom cambia stile di vita: tutti si istruiscono (soprattutto le donne), fanno meno figli e generano risorse per istruire ancora meglio la generazione successiva;
4. la generazione successiva costituisce la base della piramide rovesciata, che stavolta si trova a sostenere tanti anziani con poche risorse. Come si fa?

Attualmente siamo proprio nella fase 4. E, indovina un po’, uno dei modi per sostenerla è proprio… incentivando l’immigrazione! Poiché i cicli non avvengono simultaneamente in tutti i Paesi, gli immigrati provenienti da popolazioni in crescita permettono di sostenere meglio la piramide rovesciata e di far crescere più velocemente gli Stati che ancora si trovano nella fase 2/3, grazie al dividendo demografico.

Perché è un win-win? 1) Perché probabilmente, tra i due, l’equilibrio “fluttuante” è quello ottimale, che permette di crescere di più – visto che la crescita della popolazione è parte integrante della crescita economica, e che quest’ultima non è lineare; 2) Perché, che si tratti di cilindro o di piramide, in nessuno degli equilibri c’è una “estinzione biologica” della popolazione di partenza. Anche se fosse vero che questa porta con sé un bagaglio di valori e un’identità, la popolazione non scomparirebbe affatto, bensì diventerebbe al più minoritaria nella comunità (come accade ai bianchi negli Stati Uniti). Il che, è bene ricordarlo, è un “problema” di per sé assolutamente governabile, insolubile solo per chi fa della primazia/sopraffazione/supremazia un valore assoluto. Ancora una volta, non noi. E infatti:

Il problema è che mentre il tasso di natalità calava costantemente, basti pensare che in Italia è dal 1964 che procede in caduta libera, prendeva consistenza il processo immigrazionale. Dapprima lento ed irregolare nel corso degli anni ‘70, l’arrivo di stranieri aumentava esponenzialmente nel corso degli anni ’90 del secolo scorso, rivelando anche che il tasso di natalità degli immigrati era ampiamente positivo. Se il tasso di natalità di X è negativo, mentre il tasso di Y è positivo, se X e Y vivono nel medesimo luogo, la tendenza sarà che la crescita di Y sarà sempre maggiore di X, e se la tendenza rimarrà la medesima, Y supererà X. Se al posto delle incognite volessimo sostituire rispettivamente popolo italiano e popolazioni straniere presenti in Italia, potremo anche avere una vaga idea di cosa sia la sostituzione di popolo. Suscitando irrimediabilmente il livore di coloro che non mancano mai di sottolineare la loro supposta superiorità ed umanità ad ogni piè sospinto, antisocratici che “sanno di sapere” (ma ignorano di farlo).

Pensate voi forse che la nostra “aristocrazia” politica, abbia provato a sostituire le incognite come abbiamo fatto noi e sia corsa ai ripari per evitare estinzione e sostituzione? Tutt’altro. Ferrei osservanti della metafora della rana bollita, che non si accorge dell’aumento della temperatura perché graduale, se non quando è troppo tardi per scappare, si sono limitati a praticare il nulla mimando il tutto, come il famoso imitatore del mago Silvan, aspettando semplicemente che venga superata la temperatura di non ritorno tra scottatura e trapasso. Nulla per invertire la tendenza demografica, e tra il “nulla” non possiamo che annoverare anche il diversamente italianizzato “fertility day”, frivolo e ridicolo tentativo, da parte di chi ha smarrito volutamente per strada la sua eticità, di darci uno schiaffetto educativo, ma sottovoce e senza provocare disturbo. Nulla per bloccare il flusso migratorio, tollerato quando non proprio incentivato, sia indirettamente, con continue sanatorie di cui l’ultima ha riguardato 700 mila stranieri (nel 2002 con il governo Berlusconi), sia direttamente, partecipando come utile idiota allo svuotamento del continente africano con l’operazione “mare nostrum” e suoi figliastri, le quali tra le altre cose hanno avuto il divertente risvolto di cambiare financo la geografia, in cui adesso il canale di Sicilia, dove si svolgono i salvataggi “umanitari”, sembra iniziare dalle colonne d’Ercole fino allo stretto di Suez ma sembra avere il suo unico sbocco sempre e solo sulle coste dell’antica trinacria.

Qui le cose belle/divertenti sono due:

1. Le lotte intestine alla destra italiana: il riferimento al fertility day, al governo Berlusconi, a Mare Nostrum di Alfano/Letta;

2. La mancata conoscenza del fatto che, appunto, la demografia è una scienza studiata da molti (ma non dall’autore) – istituzioni incluse (e perfino politici!). Ed è una scienza che oggi ci dice – con tutti gli interrogativi che la scienza porta sempre con sé – che:
a. esistono fluttuazioni, equilibri, cicli come illustrato sopra;
b. è molto difficile arrestare o interferire con questi fluttuazioni, equilibri e cicli, e che le politiche per la famiglia (quella che si facevano “quando c’era LVI”) non sempre sono efficaci (perché quelle efficaci sono molto costose) e, soprattutto, spesso portano a conseguenze non intenzionali affatto desiderabili (vedi qui).

La retorica immigrazionista ha camuffato sapientemente il tutto con argomentazioni che si appoggiano a fallaci calcoli economici, ad esempio gli stranieri che ci pagheranno le pensioni (come se essi non invecchieranno e non dovranno trovare qualcuno che le pagherà a loro), o come gli stranieri che fanno i lavori che non vogliamo più fare (non considerando che forse esistono stipendi e condizioni lavorative che gli italiani non vogliono accettare). Dimenticando inspiegabilmente quell’interessante concetto di Carlo Marx nel suo “Il Capitale”, libro che pensavamo conosciutissimo e della massima autorità, che porta il nome di “esercito industriale di riserva”. Oppure temperando l’intero processo nel più deteriore e mellifluo sentimentalismo, facendo leva sulle sofferenze dei più deboli, come gli incolpevoli bambini, minoritari ma sapientemente sbattuti all’unisono su tutti i mezzi di informazione, ignorando che la maggior parte di coloro che giungono da noi siano maschi adulti. Come se di colpo il comandamento “ama il prossimo tuo” si sia irrimediabilmente trasfigurato in “ama il distante tuo”, il quale concede umanità e generosità solo verso l’altro da sé, ma mai verso il simile a sé.

Qui fortunatamente l’autore cita gli articoli scientifici che smentiscono i “fallaci calcoli economici” secondo cui l’immigrazione è essenziale per sostenere il Welfare State occidentale (e in particolare italiano): nessuno.

Curiosamente, poi, anche il coraggioso Mosca ricorre alla citazione di Marx sull’esercito industriale di riserva. Una citazione del tutto fuori luogo, come spiega un omonimo Mosca a Diego Fusaro, caduto anch’egli in una delle tante trappole tese a chi si avventura in una lettura superficiale di Marx.

Su “ama il distante tuo” e sulla caritas cristiana che l’autore mostra, invece, stendiamo un velo pietoso.

Ius sanguinis vs ius soli

In questo contesto va a collocarsi la legge sulla cittadinanza e il dibattito tra “ius sanguinis” e “ius soli”. La premessa che vogliamo portare è che ogni legge, oltre che valutata astrattamente secondo la grammatica giuridica, deve essere analizzata nelle sue implicazioni giurisprudenziali, nel contesto umano in cui è calata, e nella proiezioni dei fenomeni che norma. Poiché la differenza tra teoria e prassi, tra “de iure” e “de facto”, potrebbe riservare molte sorprese. Attualmente in Italia, in merito alle procedure per ottenere la cittadinanza, è in vigore la legge del 1992: si basa sul principio dello “ius sanguinis” – è italiano chi nasce da almeno uno dei genitori italiani – ma prevede che lo straniero possa ottenere la cittadinanza dopo aver risieduto legalmente in Italia (se proviene dalla Unione Europea dopo 4 anni, diversamente dopo 10 anni), mentre lo straniero nato in Italia possa ottenere la cittadinanza italiana facendone domanda al compimento dei 18 anni. Ricordiamo per inciso che nel 1992 erano presenti in Italia 356 mila stranieri, pari allo 0,6% della popolazione totale, e solo l’anno prima il nostro paese subiva il primo di una serie di sbarchi massicci di immigrati, in quel caso furono decine di migliaia gli albanesi che attraversavano il mare Adriatico verso quella che loro consideravano la terra promessa.

Dopo quell’anno, la nostra Patria, da tradizionale terra di emigrazione, si risvegliò di colpo come meta di immigrazione. E dovette fare i conti con un costante ed inesorabile flusso di stranieri, che ad oggi risultano essere 5 milioni, pari all’8% della popolazione totale, al netto dei clandestini. Negli ultimi anni, inoltre, ricalcando fedelmente la cosiddetta “finestra di Overton” (uno schema di persuasione delle masse, attraverso vari passaggi, che le porta a far proprie determinate idee prima inaccettabili), ha iniziato a prendere piede l’idea di una revisione completa della legge del 1992, in nome di un oscuro e sempre fumoso “principio di civiltà” (come se il resto del mondo che non prevede lo ius soli sia “incivile”, vedi paesi del nord Europa ad esempio), per favorire la naturalizzazione degli stranieri, in direzione di un avvicinamento allo ius soli. I risultati tangibili di questa insistente campagna sono la proposta di legge, per nostra fortuna non approvata, che ancora giace al Senato, tra color che sono sospesi. Ciò ha reso ancora più virulente, per certi versi, le armi che vengono scagliate dalla faretra retorica dei fautori dello “ius soli temperato” e dello “ius culturae” (queste sono le due anime della legge in discussione a palazzo Madama). Armi fintamente naturalistiche (l’immigrazione c’è e ci sarà, ergo non possiamo farci nulla, ergo bis dobbiamo naturalizzare), artatamente economiche (abbiamo bisogno degli stranieri per pensioni e lavori, ergo via alla naturalizzazione), ingannevolmente sentimentali (poveri bambini nati in Italia che si sentono diversi ai loro coetanei italiani). Per inciso rileviamo infatti che è risaputissimo che ogni pargolo straniero comprende perfettamente il concetto di appartenenza ed identità, ambisce solo a questo riconoscimento invece di giocare a pallone, e viene colpito da estrema inquietudine se ciò non avviene.

Il ricorso al concetto della “Finestra di Overton” (vedi qui e qui) ci rimanda a un altro carattere che fascismo, anti-semitismo e rosso-brunismo hanno sempre coltivato: la passione per le teorie del complotto. Secondo questa logica, un cambiamento (progresso o regresso che sia) non è il frutto di un processo di analisi, sintesi e proposta, bensì è il frutto di una manipolazione delle masse su base pseudo-scientifica e premeditata. Uno strumento molto interessante e a cui spesso le opposizioni fanno ricorso (si pensi anche ai continui riferimenti alla “neolingua” di Orwell). Lasciamo al lettore la facoltà di valutare, caso per caso, quanto la Finestra non sia invece una lettura estrema di ciò che è normale strategia politico-comunicativa – così come viene spesso bollata come neolingua qualsiasi evoluzione del lessico politico e sociale.

In secondo luogo un chiarimento importante: ius soli e naturalizzazione sono, com’è ovvio, due concetti diversi. Con ius soli si identifica un diverso paradigma con cui viene ordinariamente attribuita la cittadinanza di uno Stato: è richiesta non più la discendenza diretta da un cittadino (genitore), bensì la nascita sul territorio dello Stato. La naturalizzazione, invece, costituisce una modalità straordinaria di acquisizione della cittadinanza di uno Stato diverso da quello di appartenenza originaria, per via di uno specifico atto della pubblica autorità, subordinatamente alla sussistenza di determinati requisiti (tra i quali, ad esempio, la residenza per un dato periodo di tempo sul territorio nazionale, l’assenza di precedenti penali, la rinuncia alla cittadinanza d’origine, a seguito di matrimonio o per meriti particolari). Accanto all’inesattezza concettuale, ci sembra in questo caso che si tenti in realtà di rimarcare un confine: se anche “gli stranieri” venissero riconosciuti come cittadini italiani, essi non sarebbero mai cittadini come noi. Sarebbero sempre degli stranieri, dei diversi (con accezione negativa), a cui noi abbiamo deciso di concedere un diritto. O meglio, il privilegio e l’onore di potersi dire come noi.

La questione che noi poniamo è la seguente. Un conto è una legge per la cittadinanza allo straniero, inserita però in un contesto sociale caratterizzato da due condizioni: natalità positiva del popolo autoctono, limitato regolato e circoscritto afflusso degli allogeni. Tutt’altre implicazioni e proiezioni per la stessa legge inserita, invece, ove anche una sola delle condizioni fosse mancante. E per nostra sventura, in Italia, non solo sono mancanti entrambi, ma tutte e due seguono indirizzo nettamente contrario. In quest’ultimo caso, come le dinamiche demografiche fanno chiaramente intendere, siamo in presenza di sostituzione di popolo. Punto. Ecco perché, dopo aver permesso una invasione massiccia di immigrati stranieri, una norma che dà la cittadinanza ad uno straniero sempre più presente e che fa figli, in un paese che invece invecchia e si estingue, è una norma delinquenziale perché traditrice della propria comunità biologica, storica e culturale, che dovrebbe essere tutelata e rafforzata in primis dai propri organi politici. Un delitto considerato talmente grave persino da Dante Alighieri, uno dei nostri avi più illustri e magnifici, e che trova collocazione per i colpevoli, negli spazi più lontani dalla luce divina e più profondi dell’inferno, precisamente nel 9° cerchio, l’Antenora, in cui i dannati subiscono il loro contrappasso immersi per metà nel lago ghiacciato di Cocito, con la testa in posizione eretta.

Fantastico – e un grande classico del fascismo (vedi qui e qui) – il riferimento a Dante, “uno dei nostri avi più illustri e magnifici”. Anche perché poi si sa, sui diritti umani la cattolicissima Italia del Trecento era all’avanguardia.

La tendenza descritta, vale tanto per l’attuale norma in vigore, quanto ancor di più per la proposta di legge ora presente in Senato, la quale non potrà che fungere da tremendo acceleratore di un processo che risulta essere in atto. Tra l’altro si fa fatica a comprendere come, in un epoca che prenderebbe di sancire il superamento di quel leviatano malefico che è lo Stato nazionale, nel nome del comandamento “no alle frontiere” e dell’indistinta cifra dell’essere “cittadini del mondo”, ci si batta per ottenere il diritto di cittadinanza che emana proprio dallo Stato e che si manifesta come appartenente ad una comunità racchiusa entro frontiere stabilite. Misteri della fede mondialista.

Qui si arriva al capriccio infantile: “Ma l’idea di Nazione non vi piace, perché volete farne parte?”. Un po’ come quelli contro i matrimoni omosessuali perché “ma voi non eravate contro il matrimonio?”. Niente da fare, evidentemente quelli de Il Primato Nazionale erano tutti assenti quando a scuola hanno spiegato i concetti di “diritti” e di “libertà”.

Cosa significa essere italiani?

La verità è tutta incentrata sul concetto profondo di cittadinanza, e quindi dell’essere “italiano”. Cosa significa essere italiani? Sancisce semplicemente, a livello amministrativo, uno stanziamento per un dato periodo in certo territorio? Oppure è un concetto legato ad una identità prepolitica, un percorso storico che origina dai nostri antenati e sulle cui spalle noi nani diventiamo giganti?

Qui il Mosca ha un guizzo: ha ragione! È proprio questo che ci divide. C’è chi vede nella Nazione lo Spirito della Storia, e chi invece vede solo una delle tante comunità – storicamente determinate – di cui l’individuo fa parte, ognuna coi suoi caratteri, diritti e doveri, vantaggi e svantaggi, costi e benefici.

La questione è tutta qui. Perché se si ritiene che la propria provenienza storica, biologica, culturale, linguistica, religiosa, sia totalmente ininfluente, non potrà che avverarsi il nuovo paradigma antropologico dell’uomo spogliato della comunità, deterritorializzato, sradicato dalle radici, il quale, devoto all’edonismo utilitaristico e inserito nella struttura liberista di mobilità dei fattori di produzione, sarà sempre pronto a muoversi come un elettrone impazzito, senza un nucleo di gravità che lo possa attrarre e guidare. Questa tendenza sembra ogni giorno realizzarsi maggiormente, in una Italia che fa fatica tenersi gli italiani in Patria, nel solo 2016 sono stati circa 115 mila i nostri compatrioti emigrati all’estero, ma risulta essere campione nell’importare altri individui dal resto del mondo, sempre nel 2016 e solo provenienti da sbarchi in mare, ben 118 mila sono stati gli stranieri giunti sulle nostre coste (anche se una parte di costoro non vorrebbe restare in Italia, sempre che gli stati di destinazione li accettino, cosa su cui non siamo del tutto convinti). Come ulteriore tassello di questo orientamento delinquenziale, portato avanti, c’è da riconoscerlo, con tale e tanto rigoroso metodo, che se non fosse peccato mortale anche il solo pensarlo, inizieremo quasi a non considerare menzognera la presenza di un agenda stabilita a priori, segnaliamo anche l’abolizione della leva obbligatoria. Uno dei connotati più concreti della nazionalizzazione della masse in Italia, ottenuto tardi lo status di nazione politicamente organizzata rispetto ad altri popoli europei, ciò che sarebbe dovuto essere il massimo dovere di ogni italiano e che rappresenta una delle due colonne su cui si regge il concetto classico della cittadinanza, l’onore di difendere con le armi la collettività, è stato serenamente abolito nel 2005. Forse perché sembrava poco garbato, per la nostra cara e beata gioventù, anche solo adombrare l’idea dell’esistenza di concezioni, con cura sempre più allontanate, come “servire sotto le armi” e “dulce et decorum est pro patria mori”.

Sul finire si addensano tanti contenuti. Tra cui perfino qualcuno non lontano dal bersaglio: l’emigrazione “forzata” di massa è tra i veri problemi, oggi, in Italia.

Partiamo però dalla questione dell’identità, di nuovo tinteggiata di rosso-brunismo. Anche in questo caso è impressionante notare la similitudine tra la narrazione neofascista dell’articolo e quella della cosiddetta “identity politics” che tanta strada ha fatto nell’estrema sinistra. Segno ancora una volta di quanto la filosofia post-moderna abbia fatto un enorme passo nel chiudere il cerchio tra destra e sinistra (ne avevamo parlato qui).

Da ultimo, arriva finalmente l’esplicito riferimento e desiderio: torniamo ad armarci! Non ci dobbiamo nascondere: questa sarà una delle battaglie dei prossimi anni (vedi qui). Dovremo difendere con forza il rifiuto delle armi, della coscrizione obbligatoria, del dovere (e della necessità) di difendere il Paese in maniera violenta. Ne avevamo già parlato qui, e ne parleremo ancora, per forza di cose.

Vorremmo concludere con una provocazione. Ma per chi invece considerasse l’identità come una sedimentazione di storia, razza, terra, cultura, lingua, religione, tradizioni, e che si sentisse italiano, non per nascita casuale o approdo involontario su questa penisola, ma anche in virtù dei propri avi, che hanno intrecciato le proprie esistenze, il proprio spirito, le proprie passioni, il proprio lavoro, fino a dare la vita per la propria comunità di destino, ebbene per costoro, sarà forse mai prevista una cittadinanza “italiano più”? Mai domanda forse più retorica.

L’ultima frase (l’ultimo paragrafo?) dell’articolo riesce a vincere simultaneamente due premi: quello della domanda effettivamente più retorica e  banale del 2017 e quello della conclusione più trita e ritrita per un temino d’italiano. Oppure no, forse “ai posteri l’ardua sentenza” è ancora il mainstream. In ogni caso, traspare fortemente la mancanza d’affetto che c’è dietro ogni storia individuale di fascismo: “Ho fatto il bravo? Me lo dai il premio? Posso diventare Italiano+?”.

A chiunque invece la pensasse diversamente, a chiunque non sentisse il bisogno di distinguere ogni volta l’uguale e il diverso, serie A e serie B, rivolgo però un avvertimento: prepariamoci. Sono queste le posizioni con cui dovremo confrontarci nei prossimi mesi, anni. Sono queste le derive da arginare. Avremmo dovuto cominciare a farlo tempo fa, avremmo dovuto seminare diversamente. Prepariamoci a difendere quello di buono che abbiamo costruito. Perché sarà dura, e nessuno assicura che finirà bene.


[F.O.]
Featured image: Biagio d’Antonio,
The Flight of the Vestal Virgins (1480–1484)

* A quanto pare l’autore è laureato in Storia. L’articolo forse chiarisce perché abbia poi deciso di dedicarsi alla nutrizione e agli sport da combattimento.