Premessa numero uno: Non è lavoro, è sfruttamento (Laterza, 2017), è uscito ormai da un po’, ad inizio ottobre 2017. Ne hanno parlato in tanti, e forse è già stato scritto tutto a riguardo. Però il tempo agevola sempre le seconde occasioni, e i giorni dopo un’elezione – quando si guarda ai vincitori e agli sconfitti, alla costruzione e alla ricostruzione – sono i più adatti per scavare nel passato. Soprattutto in un Paese che col suo passato ha un rapporto strano e difficilissimo.
Premessa numero due: non definirei il libro di Marta Fana “un bel libro”. Sebbene si legga in una giornata, non credo sia ben scritto, fatica a trovare un compromesso tra lo sfogo da blog/diario personale, il pamphlet/manifesto politico, e il saggio divulgativo. E rimane incompleto, parziale, su molti aspetti.
Eppure. Eppure – come è stato scritto – è un libro utile. Molto utile. A tratti direi indispensabile. Per due motivi molto semplici: il tema che tratta – il lavoro – ed il successo che ha ottenuto.
Sul secondo mi soffermo brevemente. Non è lavoro, è sfruttamento non è stato certamente il Gomorra del 2017, ma ha scalato molte classifiche. È stato appena ristampato, e in generale se ne è parlato molto, tra i numerosi riferimenti e recensioni, nei media e nel dibattito pubblico, e le sempre meno sporadiche apparizioni dell’autrice in tv. Sia chiaro: nessuno sente l’esigenza di una nuova “stella da salotto”. Né tantomeno è possibile (almeno, non ancora) annoverare Fana tra gli “intellettuali di sinistra” che sono in grado di incidere sul reale (pochi). Ciò che conta, qui, è che un’opera che parla di lavoro – modesta ma efficace – sia riuscita a infrangere quel pesantissimo soffitto di vetro che separa le operette di nicchia – da bancarella, da iniziativa auto-referenziale del centro sociale X, direbbe qualcuno – da quelle che smuovono qualcosa, che riescono a insinuarsi in qualche modo nella narrazione collettiva. Almeno parzialmente. Grazie anche all’editore, non c’è dubbio.
Questo risultato, come detto, è del tutto strumentale. Rileva solo in relazione ai contenuti. Rileva solo perché si parla di lavoro, e con accenti spesso azzeccatissimi.
Il lavoro. Vivo il fenomeno da una prospettiva particolare. Sono nato negli anni ’90 – alla fine dell’età dell’oro –, mi sono istruito nel decennio berlusconiano – quello delle tre “i” –, e sto arrivando ora al termine del mio percorso universitario, all’alba dell’Apocalisse della rivoluzione industriale 4.0. Ho già “assaggiato” il mondo del lavoro, con qualche semplice lavoretto e con qualche impiego più serio. E, in questa sorta di progressivo disvelamento in prima persona, osservo anche le esperienze dei miei coetanei che si affacciano anche loro alle prime occupazioni. Con una sola e chiarissima costante: le condizioni del lavoro sono avvilenti, disperate. Al più desolanti. Il lavoro a cui generalmente abbiamo accesso è un continuo attacco alla nostra dignità. Per i patti a cui ci viene richiesto di sottostare, per le dinamiche personali, per il trattamento economico. Il lavoro è svilito, atterrato. E non è un’esclusiva della nostra generazione, purtroppo, né è qualcosa che scopriamo ora. Semplicemente si osserva giorno dopo giorno l’impatto e la percezione che persone diverse, di età diverse, da contesti sociali e territoriali diversi hanno nei confronti del mondo del lavoro.
Tornando al libro, a questo punto è forse necessaria una premessa (tardiva) numero 3: neanche sui contenuti sono sempre soddisfatto del lavoro di Marta Fana. Non ne apprezzo le molte generalizzazioni, il ricorso ad un concetto di classe ancora grezzo e superficiale – un marxismo quasi da assemblea liceale –, una retorica post-modernista che tende ad appiattire le dinamiche del capitalismo ad un’unica Intelligenza Sfruttatrice – trasformando in uno scontro 1vs1, classe contro classe, quello che tale non è e non può essere –, la mancanza di prospettive politiche appetibili e innovative.
Ma la sostanza del libro non è questo. La sostanza nel libro sta tutta nella frase: “Durante gli ultimi decenni, la rappresentazione del lavoro, della quotidianità dei lavoratori, è scomparsa dall’immaginario, dalla cultura” (p. 17). E nella volontà di ricostruirlo, questo immaginario, a partire dalle storie delle persone e delle imprese.
Sotto la pioggia di inizio marzo brulica un mondo che firma contratti che il datore di lavoro non rispetterà – ritardando i pagamenti, esigendo differenti mansioni, non rispettando gli orari, non pagando gli straordinari, non garantendo la sicurezza –, che accetta esperienze, stage e tirocini indegni pur di costruirsi una rete. Già dall’università, dai corsi di studio. Un mondo che spesso vive nel ricatto del rinnovo, della lettera di raccomandazione, del curriculum pulito. Il mondo di: “Tu sei la più brava, e ci serviresti molto, ma non ti riconfermerò. Purtroppo sei donna, e gli altri si lamentano che se ci sei tu non possono parlare liberamente”. Di: “Il contratto è di 30 ore, ma tu me ne fai 36. L’orario è fino alle 20, però poi dovete rimanere per mettere tutto in ordine”. Di: “Lavoro 80 ore al mese, però con gli straordinari arrivo a 120. Di solito non me li pagano – non è previsto – e poi mi sbattono di qua e di là, a fare quello che serve”. Ma anche di: “Beh se fai quello stage lo sai che ti pagano bene però ti sfruttano. Devi lavorare fino alle 10 di sera, anche nel weekend. Puoi durare solo un mese, poi scoppi”. E ovviamente di: “Non mi posso lamentare, ho un contratto a tempo indeterminato, lavoro dalle 9 alle 5. Mi sento fortunato”.
Un mondo che non ha rappresentanza – il sindacato non esiste, spesso, e quando esiste ha destini alterni (uno dei temi che mancano nel libro) –, non ha più narrazione – se non nella versione poverista, spesso, o in roba senza senso come l’ultimo libro di De Masi –, è rimasto senza analisi, strumenti, proposte (credibili ed efficaci) e potere politico.
Ha scritto oggi Christian Raimo, riferendosi all’uscita di un ebook (gratuito) sul lavoro domestico e di cura: “dico che per me bisogna fare inchieste più che racconti di finzione.
E dico che ci sono tre aree che mi piacerebbe indagate, la prima è quella del lavoro domestico e di cura (badanti, donne delle pulizie, babysitter…), la seconda è quella del lavoro editoriale, la terza è quella della logistica.” Serve “raccontare cosa vuol dire oggi in Italia far da mangiare ai bambini degli altri, fare la doccia ai nonni degli altri, mettere a posto le case degli altri.”
Serve raccontare il lavoro. Come – a proposito della citazione precedente – anni fa serviva raccontare in maniera efficace cos’è oggi, qui, ora, il fenomeno delle mafie, per mettere fine a quella negazione che – sostengo io – oggi possiamo forse archiviare (“La mafia non esiste” o “La mafia esiste solo al Sud”), è quantomai necessario mettere insieme le atomistiche esperienze di sfruttamento per dare loro rappresentanza, corpo, e risposte – e chiamarle appunto col loro nome: sfruttamento. La sfida di oggi (!) è far capire che lo sfruttamento esiste, anche qui, ora, che è tale la natura di parte rilevante del lavoro, e non è solo esperienza individuale. Serve far capire alla lavoratrice frustrata che torna a casa, in metro o sul bus, che l’uomo altrettanto frustrato accanto a lei – magari vestito diversamente, magari sgradevole per qualche motivo – non è un privilegiato, qualcuno che vive qualcosa di diverso lontano. È come lei. E da tanti punti di vista. Insomma, il libro di Marta Fana, nel suo classismo neomarxiano, fa un piccolissimo ma rilevante passo in una (sola) decisiva direzione: quella di rigenerazione di una coscienza collettiva. O, se non altro, di denuncia, di richiesta di questa rigenerazione.
Un passo talmente decisivo – un tema talmente decisivo – che devono passare in secondo piano tutti gli altri aspetti. L’analisi, la retorica, le proposte. Su quelle dobbiamo sederci assieme, attorno a un tavolo, e parlare. Nessuno con la verità in tasca. Sviscerare tutto, svuotare e ripartire. Trovare soluzioni, messaggi, metodi, pratiche, mezzi, legami, collegamenti. Creare. Tornare a fare il nostro lavoro. Tornare a fare il nostro lavoro. Dialogare, scornarci. In una parola: lavorare.
[F.O.]
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Maid in London (2006)