Appunti su una visione del mondo (e della politica e dell’economia) – commenti all’antologia (2009) di André Gorz (qui la parte 1):
3. L’ecologia politica tra espertocrazia e autolimitazione (1992)
“A differenza dei sistemi industriali, l’ecosistema naturale possiede una capacità autogeneratrice e autorganizzatrice che gli permette di autoregolarsi e di evolvere nel senso della complessità e della diversità crescenti. Questa capacità è danneggiata da tecniche che tendono a razionalizzare e a dominare la natura.
[…] A partire da ciò, due approcci sono possibili. Il primo, che si appoggia sullo studio scientifico dell’ecosistema, cerca di determinare le tecniche e le soglie di inquinamento sostenibili […].
Le politiche di «preservazione dell’ambiente naturale» non tendono affatto, dunque, a differenza dell’ecologia politica, a una pacificazione dei rapporti con la natura […]. La presa in conto dei vincoli ecologici da parte degli Stati si tradurrà allora in divieti, regolamentazioni amministrative, tassazioni, sovvenzioni e sanzioni. Essa dunque avrà quale effetto il rafforzarsi dell’eteroregolazione del funzionamento della società. […] Dei «media regolatori», quali il potere amministrativo e il sistema dei prezzi, sono incaricati di canalizzare i comportamenti dei consumatori e le decisioni degli investitori verso un fine che essi non avranno bisogno di approvare né di comprendere per realizzare.
[…] La presa in conto dei vincoli ecologici si traduce così, nel quadro dell’industrialismo e della logica del mercato, in un’estensione del potere tecnico-burocratico. Ora, questo approccio proviene da una concezione premoderna tipicamente antipolitica. Essa abolisce l’autonomia del politico in favore dell’espertocrazia, innalzando lo Stato e gli esperti di Stato a giudici dei contenuti dell’interesse generale e dei mezzi per sottomettervi gli individui” (pp. 45-48).
In queste righe, Gorz fa eco al pensiero di Rousseau e tanti altri. Solo il ritorno allo stato di natura può liberare l’uomo dal male, qualsiasi tipo di progresso – in quanto governato, controllato – è un compromesso al ribasso, corrompe la natura dell’uomo e dell’ecosistema. La società – l’altro – è il vero nemico, e il Governo è l’arma che essa ha per assoggettare l’individuo.
Inoltre Gorz, come parte di quella corrente di pensiero che scardina l’antropocentrismo in virtù della naturacultura, cade nell’errore (che spesso la teoria ecologica commette) di considerare la “natura” come oggetto psichico, e cioè come qualcosa con cui l’essere umano sarebbe in rapporto affettivo (cosa impossibile poiché la natura è inanimata, è un concetto astratto, e non ha capacità di rapporto). Ciò non risponde alle esigenze di creazione di una naturacultura in quanto invece di evidenziare uno scambio tra l’uomo e il suo ambiente, produce una proiezione (e un altro assoggettamento) per la quale l’identità umana sarebbe qualcosa di esterno al corpo, sarebbe oggetto inanimato. Idealizzare e umanizzare la “natura” non è solo un’affermazione delirante, ma è anche una negazione della relazione di scambio che si viene a creare tra l’uomo e il suo ambiente. Si scardina l’antropocentrismo e si instaura il naturacentrismo. Non importa a cosa l’essere umano può andare incontro, qualsiasi razionalizzazione della natura è sbagliata perché “razionale”.
“La «natura» per la quale il movimento [ecologista] esige protezione non è la Natura dei naturalisti né quella dell’ecologia scientifica: è fondamentalmente l’ambiente, che appare «naturale» perché le sue strutture e il suo funzionamento sono accessibili a una comprensione intuitiva; perché esso corrisponde al bisogno di sviluppo delle facoltà sensoriali e motorie; perché la sua conformazione familiare permette agli individui di orientarvisi, di interagire, di comunicare «spontaneamente» in virtù di attitudini che non sono mai state insegnate formalmente.
La «difesa della natura» dunque deve essere originariamente compresa quale difesa di un mondo vissuto, che si definisce tale […] per il fatto che gli individui vi vedono, comprendono e padroneggiano il compimento dei loro atti.
Ora, più una società diventa complessa, meno il suo funzionamento è intuitivamente intellegibile. La massa dei saperi messa in opera nella produzione, nell’amministrazione, negli scambi, nel diritto supera di gran lunga le capacità di un individuo o di un gruppo.
[…] Il sistema invade e marginalizza il mondo vissuto, cioè il mondo accessibile alla comprensione intuitiva e alla presa pratico-sensoriale. Esso toglie agli individui la possibilità di avere un mondo e di averlo in comune” (pp. 50-51).
“Lo stesso genere di messa sotto tutela [visto con il nucleare] si opera in maniera più diffusa in tutti i campi in cui la professionalizzazione – e la formalizzazione giuridica, la specializzazione che questa comporta – discredita i saperi vernacolari e distrugge la capacità degli individui di farsi carico di se stessi. Queste sono le «professioni mutilanti» (disabling profession) che Ivan Illich ha denunciato.
La resistenza a questa distruzione della capacità di farsi carico di sé è all’origine di componenti specifiche del movimento ecologista: reti di aiuto al malato, movimenti in favore delle medicine alternative, movimenti per il diritto all’aborto, movimenti per il diritto alla morte «con dignità», movimenti in difesa della lingua, delle culture e dei villaggi, ecc.” (pp. 52-53).
Dopo un elogio della complessità (crescente), Gorz ammira la natura per la sua intuibilità. Ciò che non è intuibile, naturalmente apprendibile, non è desiderabile. L’individuo deve avere tutto sotto controllo, perché la collettività è sua antagonista. Non importa se l’uomo, grazie alla divisione dei compiti, alla specializzazione e alla complessità crescente di cui egli è artefice, riesce ad emanciparsi da altri mali quali la malattia, la fatica, la morte in tenera età. La libertà assoluta – o quella che Gorz interpreta come tale – va raggiunta dall’individuo a qualsiasi costo. I “saperi vernacolari” devono trionfare, anche a danno della specie e di quelle “attitudini” che Gorz dichiara di voler proteggere.
“Nel quadro dell’autogestione, la libertà […] condurrà per esempio a lavorare in modo più disteso e gratificante al prezzo di una produttività minore: esso condurrà anche a limitare i bisogni e i desideri per poter limitare lo sforzo da addurre. In pratica, la norma secondo la quale si regola il livello dello sforzo in funzione del livello di soddisfazione ricercato, e viceversa il livello di soddisfazione in base allo sforzo al quale si consente, è la norma del sufficiente.
[…] La norma del sufficiente – guadagno sufficiente per l’artigiano, beneficio sufficiente per il mercante – era così ben radicata nel modo di vita tradizionale che era impossibile ottenere dagli operai un lavoro più intenso o più prolungato promettendo loro guadagni più elevati. L’operaio «non si chiedeva», scrive Max Weber, «quanto posso guadagnare al giorno se compio il massimo lavoro possibile, ma: quanto devo lavorare per guadagnare i due marchi e cinquanta che ricevevo fino ad oggi e che coprono i miei bisogni correnti»” (pp. 58-59).
Perché dobbiamo rassegnarci a lavorare meno non solo producendo meno, ma producendo proporzionalmente meno, con una produttività minore? Perché non accettare la sfida della tecnologia – lanciata da più di due secoli ormai – e produrre di più (in maniera sostenibile) lavorando meno? Non c’è più spazio per una società consumistica, ma dobbiamo davvero limitare i nostri bisogni e desideri? Per quelli che sono gli standard attuali di gran parte della popolazione mondiale, uno sviluppo sostenibile è possibile senza vere rinunce, ma lavorando a un nuovo modello economico. Dove rimarrà però essenziale la ricerca di nuove frontiere, e non sarà possibile fermarsi a ciò che è sufficiente per la generazione presente. Quest’ambizione è prima di tutto della classe imprenditoriale, tuttavia, e non di quella lavoratrice se non in termini marginali, estremi, o patologici.
“È la tripla espropriazione [di cui scriveva Marx nel Capitale] che ha permesso specializzazioni funzionali sempre più ristrette, l’accumulazione e la combinazione, in uno stretto processo di produzione, di una massa di saperi tecno-scientifici provenienti da discipline eterogenee, incapaci di comunicare e di coordinarsi tra loro, e la cui organizzazione produttiva richiedeva uno Stato maggiore e una struttura piramidale quasi militare” (p. 60).
Dov’è scritto che la massa di saperi accumulata dopo la Rivoluzione Industriale soffre di incomunicabilità e mancanza di coordinamento? Non tutti i modelli produttivi – a maggior ragione oggi – sono di tipo fordista. La crescita dello Stato nel Novecento, poi, non è direttamente figlia del modello economico, bensì del socialismo da una parte, e del nazionalismo che ha portato a due Guerre Mondiali dall’altra.
“La produzione è così diventata, innanzitutto, un mezzo per l’accrescersi del capitale; essa è anzitutto al servizio dei «bisogni» del capitale ed è solo nella misura in cui il capitale ha bisogno di consumatori per i suoi prodotti che la produzione è anche al servizio dei bisogni umani. Questi bisogni, tuttavia, non sono più bisogni o desideri «naturali», spontaneamente provati, sono bisogni e desideri prodotti in funzione dei bisogni di redditività del capitale. Il capitale si serve dei bisogni che esso serve in vista del proprio accrescimento, il quale richiede a sua volta la crescita dei bisogni. Il modello di consumo del capitalismo sviluppato risulta così dall’esigenza propria al capitale di creare il maggior numero possibile di bisogni e di soddisfarli con il flusso di merci più grande possibile. La ricerca dell’efficienza massima nella messa in valore del capitale esige così la massima inefficienza nella copertura dei bisogni: il massimo spreco” (p. 61).
Ancora una volta, l’intera visione gorziana si basa un pilastro: la teoria critica dei bisogni. In questo caso, eliminando del tutto qualsiasi importanza per il cosiddetto lato della domanda. È verissimo, infatti: il capitale, senza bisogni cui offrire risposta, va in rovina. Ma è il sistema di mercato, anche il più rudimentale, che funziona così. Fino a prova contraria i bisogni, che, se non soddisfatti, fanno morire il corpo, esistono, e nessuno dei due lati del rapporto ha teoricamente più importanza dell’altro. È da questa “dimenticanza” – e solo da questa – che nasce la visione del capitalismo come massimo spreco. È innegabile: il capitalismo ha sprecato e spreca risorse. Ma ciò diventa fisiologico e strutturale solo se ignoriamo del tutto il lato della domanda e il ruolo della concorrenza.
“Questa automatizzazione della produzione sarebbe stata molto più difficile se i lavoratori avessero potuto proporzionare la durata del loro lavoro al reddito di cui stimavano di aver bisogno. Via via che la produzione e i salari aumentavano, una frazione crescente della popolazione attiva avrebbe scelto, o potuto scegliere, di lavorare meno e autolimitare la crescita dei propri consumi.
[…] È alla richiesta di ridurre la durata del lavoro che il padronato ha opposto sempre la resistenza più aspra, magari preferendo accordare congedi retribuiti più lunghi. Dato che le vacanze sono, per eccellenza, un’interruzione programmata della vita attiva, tempo di puro consumo, che non si integra nella vita di tutti i giorni, non la arricchisce di dimensioni nuove, non le conferisce un’autonomia accresciuta né un contenuto altro da quello del ruolo professionale.
In società industriali complesse è impossibile ottenere una ristrutturazione ecocompatibile della produzione e del consumo riconoscendo semplicemente ai lavoratori il diritto di autolimitare il proprio sforzo; detto altrimenti: la possibilità di scegliere il loro tempo di lavoro, il diritto al «tempo scelto». Non esiste alcuna correlazione evidente, in effetti, tra il volume della produzione e il tempo di lavoro” (pp. 61-63).
La durata della giornata lavorativa è in effetti diminuita, grazie all’automatizzazione (e alle lotte sindacali). Ma perché i lavoratori dovrebbero autolimitare i propri consumi? E poi: nel capitalismo – così come nel socialismo, dove se ne occupa il governo – non sono i lavoratori a gestire i ritmi dell’innovazione. Sono gli imprenditori, che generalmente lo fanno per aumentare la produzione e sostituire lavoro con capitale.
Elevare a visione filosofica, poi, l’odio personale che probabilmente Gorz aveva per le vacanze, non è una mossa astuta. Che il tempo libero, in generale, non arricchisca la vita di dimensioni nuove e creative è nulla più che un’esperienza personale, ascrivibile al massimo all’aneddotica e a una mancata correlazione tra produzione e tempo di lavoro. Con tecnologia costante, maggiori tempi di lavoro – entro i limiti fisiologici che non penalizzano la produttività – implicano maggiore produzione. Con le innovazioni tecnologiche (maledette!) o istituzionali (stramaledette!) – e grazie alla specializzazione – è possibile invece lavorare meno e produrre di più.
E cos’è il “diritto al tempo scelto” se non l’anarchia, la negazione stessa del concetto di lavoro e di professione? Ancora una volta: non c’è nulla di politico in questo progetto, si tratta solo di un disegno svincolato da ogni considerazione sulla natura, sui bisogni e sulla storia dell’Uomo.
“Il senso fondamentale di una politica ecosociale […] consiste nel ristabilire politicamente la correlazione tra minor lavoro e minor consumo da una parte, maggiore autonomia e maggiore sicurezza esistenziali dall’altra, per tutti e per ognuno” (p. 64).
Come ci insegna la storia, non ci sono mai stati esempi di come minor lavoro e minori consumi siano associati a maggiore autonomia e maggiore sicurezza esistenziale. Il tutto va ricondotto sempre a una visione distorta del consumo (e del lavoro): il consumo non è sempre consumo di risorse materiali, ma è anche – figurativamente, e per esigenze analitiche – “consumo” di istruzione, sanità, tempo con i propri cari. Il reddito (da lavoro) serve primariamente a finanziare questo, ovvero ciò che assicura la maggiore autonomia e sicurezza esistenziale.
“L’economia è per eccellenza una forma della «ragione cognitiva strumentale», cioè una scienza del calcolo dell’efficacia dei mezzi e della scelta dei mezzi più efficaci da mettere in opera in vista di un fine. Essa è inapplicabile a fini che non siano distinti dai mezzi impiegati, e non può essa determinare i fini da realizzare. Quando nessun fine le è prescritto, essa sceglie i fini per i quali dispone dei mezzi più efficaci: prenderà per fine la crescita della sfera nella quale la sua razionalità può dispiegarsi e tenderà a sottomettere tutte le altre sfere, compresa la vita e le basi naturali della vita.
Questo dominio della razionalità economica su tutte le altre forme di razionalità è l’essenza del capitalismo” (p. 66-67).
Non tutta l’economia può essere distinta dai fini, dalla politica e dalla morale. Il legame è anzi per lo più stretto e inscindibile. Sebbene l’economia non determini direttamente i fini – ma c’è la politica, per questo, e si tratta solo di una distinzione filosofico-categorica – ciò non ne determina l’inapplicabilità a queste categorie. E, ancora una volta, si cade nel crudele vizio di personificare ciò che invece è uno strumento nelle mani degli individui. La scienza economica non sceglie, non prende, non sottomette. Gli individui lo fanno, con o senza scienza. Se la razionalità economica domina sulle altre necessità umane – anziché conciliarsi con esse, e porsi al loro servizio –, ciò non è per motivi intrinseci e ineluttabili, è frutto di una scelta delle persone, o di alcune di loro, che sono nella posizione di imporre il loro modello, o il cui modello è condiviso dai più. Una discussione su questo tipo di accentramento di potere sarebbe più utile per proporre modelli economico-sociali.
4. L’ideologia sociale dell’automobile (1975)
“Il vizio profondo delle automobili è che esse sono come i castelli o le ville sulla costa: beni di lusso inventati per il piacere esclusivo di una minoranza di persone molto ricche e che niente, nella loro concezione e nella loro natura, destinava al popolo. A differenza dell’aspirapolvere, del telegrafo senza fili o della bicicletta, che conservano il loro valore d’uso quando tutti ne dispongono, l’automobile, come una villa sulla costa, non offre interesse e vantaggi se non nella misura in cui la massa non ne dispone. Per la sua concezione, come per la sua destinazione originaria, l’automobile è un bene di lusso. E il lusso, per essenza, non si democratizza: se tutti accedono al lusso, più nessuno ne trae vantaggi” (p. 74-75).
La maggior parte dei beni tecnologici nasce come “bene di lusso”. Per un motivo molto semplice: essendo frutto di un’innovazione, che è un bene scarso, servono tempo e ulteriore innovazione prima che il costo di produzione del bene si abbassi tanto da permettere l’acquisto da parte delle masse. L’automobile è uno degli esempi più chiari in merito. Che questo caratterizzi l’essenza di un bene è un giudizio totalmente soggettivo.
La cd. “democratizzazione”, ovviamente, può avere un costo. Il bene non è più uno status symbol, per cominciare. Ma non dovrebbe essere un problema per Gorz, né per l’umanità. Ci sono tuttavia altri effetti. Se tutti possiedono una macchina, arriva il traffico, e i miei spostamenti rallentano. Sono più lenti di quanto sarebbero senza automobile? No, altrimenti nessuno la userebbe. Si tratta di un problema irrisolvibile? No, molte città affrontano agilmente il problema del traffico. Ne vale la pena? Probabilmente sì, visto ciò che l’automobile ci permette di fare. Non c’è nulla, insomma, che non sia ancora una volta sintomo di un istinto di conservazione di un mondo naturale e mitico che esiste solo nella testa dei gorziani.
“Paradosso dell’automobile: in apparenza, essa conferiva ai suoi proprietari una indipendenza illimitata […] ma, in realtà, questa autonomia apparente aveva per rovescio una dipendenza radicale: a differenza del cavaliere, del carrettiere o del ciclista, l’automobilista si trovava a dipendere, per l’alimentazione energetica così come per la riparazione della minima avaria, da commercianti e specialisti della carburazione, della lubrificazione, dell’illuminazione e del ricambio dei pezzi. A differenza di tutti i proprietari privi di mezzi di locomozione, l’automobilista cominciava ad avere un rapporto di utente e consumatore – e non di possessore e padrone – con il veicoli di cui, formalmente, era il proprietario.
[…] La situazione che sogna ogni capitalista stava per realizzarsi: tutti gli uomini stavano per dipendere per i propri bisogni quotidiani da una merce in cui una sola industria deteneva il monopolio. Non bisognava fare altro che portare il popolo a circolare in automobile. E il popolo non si fece pregare” (pp. 75-76).
È realistico pensare che ci si potesse immaginare una garanzia di “indipendenza illimitata” dall’automobile? No. L’indipendenza illimitata è un concetto che probabilmente nemmeno esiste, nella realtà. E cosa c’è di male nel dipendere da un’industria? Che non è un fatto obbligato, sia chiaro. Centinaia di migliaia di persone, nel mondo, possono gestire le proprie automobili da sé. Oggi come sempre. E non si tratta nemmeno di una sola industria, di un monopolio. Ma il popolo è sempre caprone, a quanto pare, e segue il capitale come fosse il suo unico pastore.
Come la buona tradizione post-modernista vuole, appare qui indisturbata una generalizzazione, come ce ne sono tante nel volume. Non determinare una causante (o determinarla: nel capitalismo? nel Capitale? nell’industriale che ha investito in qualsiasi tipo di automobile sia stata prodotta fino al 1975?) e/o non parlare di scambio ma di sottomissione, di massa e non di individualità, non può portare ad alcun dibattito costruttivo su un nuovo modello economico.
“Se l’auto deve prevalere, resta una sola soluzione: sopprimere la città, cioè estenderla su un centinaio di chilometri, lungo strade monumentali, sobborghi autostradali. È quel che accade negli Stati Uniti. Ivan Illich ne riassume il risultato in queste cifre sconvolgenti: «L’americano tipo dedica più di 1500 ore all’anno (cioè 30 ore a settimana, o 4 ore al giorno, domeniche comprese) alla sua automobile: questa cifra comprende le ore che passa al volante, in marcia o da fermo; le ore di lavoro necessarie per pagarla e per pagare il propellente, gli pneumatici, i pedaggi, l’assicurazione, le contravvenzioni e le tasse… Questo americano, dunque, ha bisogno di 1500 ore per fare in un anno 10.000 chilometri. Per 6 chilometri ha bisogno di un’ora. Nei paesi privi di industrie e trasporti, le persone si spostano a questa stessa velocità andando a piedi, con il vantaggio supplementare che possono andare in qualsiasi posto e non soltanto lungo le strade asfaltate». È vero, precisa Illich, nei paesi non industrializzati, gli spostamenti non assorbono che dal 3 all’8% del tempo sociale (2/6 ore alla settimana)” (pp. 77-78).
È vero, le città, soprattutto negli Stati Uniti, hanno spesso pagato il prezzo del successo dell’automobile. Ma quello delle distanze è un problema endemico per gli USA, con un territorio e una densità totalmente diversi da quelli a cui noi europei – Gorz compreso – siamo abituati.
Molto interessanti, poi, i calcoli di Ivan Illich. Peccato che dimenticano il movente. Perché gli uomini hanno bisogno di spostarsi così velocemente? Perché gli uomini dei Paesi ad alto reddito sono pronti a pagare il prezzo del mantenimento dell’automobile? Evidentemente c’è un calcolo, evidentemente a loro conviene, per produrre (e vivere bene) in un modello che non è quello dei Paesi non industrializzati. Un dettaglio tutt’altro che ignorabile.
“La verità è che nessuno ha veramente scelta: non si è liberi di avere o meno un’automobile, perché l’universo suburbano è organizzato in sua funzione – e, sempre più, anche l’universo urbano. È il motivo per cui la soluzione rivoluzionaria ideale, che consiste nel sopprimere l’automobile a vantaggio della bicicletta, del tram, del bus o del taxi senza autista, non è più nemmeno applicabile in città autostradali quali Los Angeles, Detroit, Houston, Trappes e perfino Bruxelles, modellate da e per l’automobile.
[…] Allora, la partita è persa? No: ma l’alternativa all’automobile non può che essere globale” (pp. 81-82).
È vero, confessiamo. A volta gli uomini sono costretti a fare di necessità virtù, e modificare le loro abitudini per adattarsi al luogo dove vivono. Gli animali non fanno nulla di diverso, per tornare al parallelo con la natura. Ma gli uomini, a differenza degli animali, hanno scelta perché hanno la capacità di immaginare. E la capacità di immaginare fa la progettualità. La scelta umana è sicuramente vincolata a qualche altra esigenza, ma rimane pur sempre una scelta. L’indipendenza assoluta non esiste. Esiste però il cambiamento: sia per gli individui, che sanno adattarsi senza vivere ciò come una violenza, sia per le città, che possono mutare la loro natura nel tempo (vedi Detroit, Los Angeles,Houston, e Bruxelles).
“Mai porre il problema dei trasporti isolatamente, ma legarlo sempre al problema della città, della divisione sociale del lavoro e della compartimentazione che questa ha introdotto tra le diverse dimensioni dell’esistenza: un posto per lavorare, un posto per «abitare», un quarto per istruirsi, un quinto per divertirsi” (pp. 83-84).
A quale alternativa pensa Gorz? Probabilmente nessuna. È vero, prima della Rivoluzione Industriale non serviva spostarsi per lavorare, si lavorava nel campo accanto alla casa (se non si era braccianti). E non c’era bisogno di istruirsi! La terza elementare si raggiunge facile, anche a casa. Per divertirsi, poi, bastano le serate della chiesa. I ricchi, tuttavia, già avevano bisogno di tutto ciò. Perché bisogni più complessi richiedono reti più complesse. Dobbiamo averne paura? No, dobbiamo solo farle funzionare.
[F.O. & G.C.]
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