Appunti su una visione del mondo (e della politica e dell’economia) – commenti all’antologia Ecologica (2009) di André Gorz (1923–2007):
1. L’ecologia politica, un’etica della liberazione (2005)
“Noi nasciamo a noi stessi come soggetti, vale a dire come esseri irriducibili a ciò che gli altri e la società ci chiedono e ci permettono di essere. L’educazione, la socializzazione, l’istruzione, l’integrazione ci insegnano a essere Altri tra gli Altri, a rinnegare questa parte non socializzabile che è l’esperienza di essere soggetto, a canalizzare le nostre vite e i nostri desideri in percorsi ben delimitati, a confonderci con i ruoli e le funzioni che la megamacchina sociale ci impone di assolvere.
[…] Ci dispensano o perfino ci impediscono di esistere per noi stessi, di porci questioni sul senso dei nostri atti e di assumerli. […] È soltanto nei suoi interstizi, nelle sue disfunzioni, nei suoi margini che sorgono soggetti autonomi attraverso i quali la questione morale può porsi.
[…] Che noi si sia dominati dal nostro lavoro è un’evidenza da centosettanta anni. Ma non lo è il fatto che noi siamo dominati nei nostri bisogni e desideri, nei nostri pensieri e nell’immagine che abbiamo di noi stessi” (pp. 15–16).
È davvero questo il ruolo che hanno l’educazione, la socializzazione, l’istruzione e l’integrazione? O sono piuttosto necessari all’uomo per (i) sviluppare appieno le proprie potenzialità e (ii) imparare a convivere con ciò che lo caratterizza, la coesistenza coi propri simili? L’Altro è un limite o un’opportunità? L’Altro riesce davvero a ridurci alla nostra immagine sociale (la maschera pirandelliana), distruggendo la nostra soggettività? No, non sempre. E Gorz contraddice la sua stessa visione mitica dell’umanità. È proprio per evitare di essere schiacciati che ci si educa alla vita sociale, innanzitutto. Educazione, istruzione, socializzazione e integrazione sono prima e soprattutto coscienza critica, non sottomissione. E non è soltanto ricorrendo alle disfunzioni che si sfugge alla distruzione dell’io. Lo sviluppo della persona, il lavoro, la salute fisica e mentale, di regola costituiscono la liberazione del soggetto, non la sua costrizione. Esistono i fallimenti, ma questa non è solo retorica. Su quali basi si afferma il contrario?
“Il capitalismo aveva bisogno che la gente avesse bisogni maggiori. Ancora meglio: esso doveva poter manipolare e sviluppare questi bisogni nel modo più redditizio per sé stesso, incorporando un massimo di superfluo nel necessario…” (pp. 17–18).
La teoria critica dei bisogni è uno dei pilastri della scuola di pensiero di Gorz e compagni. Non è questa la sede per affrontare questo enorme dibattito, davvero centrale per tutte le questioni qui affrontate, e per la visione dell’uomo implicita in questa filosofia. Tuttavia quello che più colpisce in questo passaggio è la personificazione del capitalismo – altro tratto caratteristico (v. la razionalità foucaultiana). Il capitalismo diventa soggetto – non sistema – e fa piazza pulita della componente umana, sia essa attiva (i capitalisti) o passiva (i lavoratori, i consumatori…), che è non ha alcuna scelta o libertà.
“La conoscenza, l’informazione sono per essenza beni comuni che appartengono a tutti, e dunque non possono diventare proprietà privata e merce, senza essere mutilate della loro utilità […].
[…] L’economia della conoscenza ha dunque vocazione a essere un’economia della messa in comune e della gratuità, vale a dire il contrario di un’economia.
[…] Nell’informatica è soppressa la divisione sociale tra quelli che producono e quelli che concepiscono i mezzi per produrre. I produttori non sono più dominati dal capitale attraverso i mezzi di lavoro. Produzione di conoscenza e produzione di ricchezze materiali o immateriali si fondono. Il capitale fisso non ha più un’esistenza separata; esso è sussunto, interiorizzato da uomini e donne che fanno esperienza pratica concreta del fatto che la principale forza produttiva non è né il capitale macchina né il capitale denaro, ma la passione viva con la quale essi immaginano, inventano e accrescono le proprie capacità cognitive […]. Potenzialmente, il lavoro – nel senso che esso ha nell’economia politica – è soppresso […].
L’hacker è la figura emblematica di questa appropriazione/soppressione del lavoro. […] Questi dissidenti, usciti dalla rivoluzione informatica, rappresentano negli Stati Uniti circa un terzo della popolazione attiva” (pp. 21–24).
Che la conoscenza e l’informazione siano beni comuni per definizione è tutt’altro che vero. Sono sempre state la “merce” più ambita e conservata per sé, proprio per sprigionarne la massima utilità. Scientia potentia est – Knowledge is power. L’informazione/conoscenza mi è utile in quanto è mia e non del mio avversario/nemico/superiore/inferiore, e posso farne uso a mio esclusivo vantaggio. Ciò fa venir meno l’automatismo della “gratuità”, ovviamente, come dimostra l’attualità di un’economia della conoscenza e dell’informazione fondata sulla proprietà di masse di dati sempre più complete. Il capitale fisso rimane centrale, sebbene con dinamiche diverse rispetto all’economia industriale fordista, così come il lavoro è ben lontano dalla soppressione. E siamo davvero sicuri che gli hacker – questa figura eroica secondo Gorz – siano un terzo degli attivi negli USA (ovvero circa 47 milioni di persone)? Non sono più di cinque milioni in tutto il mondo. La tentazione delle profezie in stile marxiano sembra essere sempre più forte dell’attaccamento alla realtà.
2. L’uscita dal capitalismo è già cominciata (2007)
“Il capitalismo ha raggiunto un limite tanto interno quanto esterno, che è incapace di superare e che ne fa un sistema che sopravvive solo grazie a sotterfugi alla crisi delle sue categorie fondamentali: il lavoro, il valore, il capitale.
[…] In Cina, nelle Filippine o in Sudan, le cifre attestano che questo limite è raggiunto” (pp. 30–31).
Il capitalismo è in crisi. Il capitalismo è sempre in crisi. Che sia vero o no, poco conta. O meglio, poco conta in termini di “uscita” dal capitalismo. Ed è proprio questo l’insegnamento più profondo di Marx – tanto citato quanto incompreso. Le crisi sono una componente strutturale del capitalismo, lo caratterizzano e definiscono. Ed è questa la sua forza. Il capitalismo – a differenza di un sistema come quello feudale, che per le sue rigidità periva sotto i colpi delle crisi – è un sistema che si rigenera continuamente e si supera dialetticamente verso una nuova sintesi, all’interno del suo stesso steccato. Perché non esiste “un” capitalismo, ne esistono infinite varietà a seconda del tempo, del luogo, della fase, delle persone. Non è un “sotterfugio” a farlo sopravvivere, è la sua fisiologia. E siamo davvero sicuri che i Paesi citati dimostrino che l’estinzione sia vicina? Pare piuttosto il contrario (vedi anche qui, qui, qui e qui).
“Se si prolunga la tendenza attuale, il PIL mondiale sarà moltiplicato per tre o quattro volte di qui all’anno 2050. Ora, secondo il rapporto sul clima delle Nazioni Unite (IPCC 2007), le emissioni di CO2 dovranno diminuire dell’85% fino a quella data per limitare il riscaldamento climatico a 2°C al massimo. […] La decrescita è dunque un imperativo di sopravvivenza” (pp. 32–33).
Colpisce il sillogismo, che fa uso del classico stratagemma pseudo-marxiano: prospettare un’unica alternativa possibile, ed elevarla a destino inevitabile. La sostenibilità è la sfida del nostro tempo – dal punto di vista ambientale e non solo –, non si può negare (sebbene molti lo facciano, spesso seguendo proprio le argomentazioni gorziane, paradossalmente). È la decrescita l’unica via verso la sostenibilità ambientale? È la migliore tra le varie alternative? Nessuna evidenza scientifica supporta queste tesi, mentre diverse evidenze (vedi anche qui) sostengono che sia possibile e conveniente fare diversamente.
“E tuttavia, la «dittatura dei bisogni» perde forza. Il potere che le imprese esercitano sui consumatori diventa più fragile a dispetto dell’esplosione delle spese per il marketing e la pubblicità. La tendenza all’autoproduzione riconquista terreno in ragione del peso crescente che hanno i contenuti immateriali nella natura delle merci. Il monopolio dell’offerta poco alla volta sfugge al capitale” (p. 37).
Anche in questo caso si vede sorgere un sol dell’avvenire che forse non esiste affatto, e si cade in contraddizione. Che il marketing e la pubblicità stiano perdendo terreno è davvero tutto da dimostrare (vedi qui e anche qui), proprio in ragione della nuova spinta all’autoproduzione (che è comunque marginale) e della natura immateriale di molte merci. Si tratta semplicemente di nuovi mercati. Il capitalismo è un po’ come un prototipo del supereroe americano: il narratore lo dipinge sempre in difficoltà, ma lui non perde mai…
“L’informatica e Internet minano il regno della merce alla base. Tutto ciò che è traducibile in linguaggio digitale e riproducibile, comunicabile senza costi, tende irreversibilmente a diventare bene comune, addirittura un bene comune universale quando è accessibile a tutti e utilizzabile da tutti” (p. 39).
Così come nell’Ottocento si mitizzavano le forme di cooperazione e di socializzazione della produzione – con tante ragioni –, Gorz ama cantare le lodi dell’informatica. Su cui le sue competenze specifiche sfioravano lo zero. Ancora una volta: che tutto ciò che è digitale sia non solo condivisibile senza costi ma che tenda irreversibilmente ad essere messo in comune è tesi non dimostrata. Un piccolo esempio che illustra quanta complessità rimanga fuori dal quadro: ipotizziamo che dei competitor che partono da zero riescano a riprodurre tecnicamente gli algoritmi alla base dei due giganti digitali contemporanei, Google e Facebook. Non è cosa impossibile. Eppure staremmo davvero mettendo in comune il bene più prezioso in loro possesso? Le economie di rete (vedi anche qui) sono alla base del capitalismo contemporaneo, e non tutti gli attori sono Wikipedia.
“Il lavoro sarà produttore di cultura e l’autoproduzione un modo di sviluppo. Due circostanze sostengono questo tipo di cammino. La prima: esistono molte più competenze, talenti e creatività di quante l’economia capitalistica ne possa utilizzare. Questa eccedenza di risorse umane non può diventare produttiva se non in un’economia in cui la creazione di ricchezza non sia sottomessa ai criteri della redditività. La seconda: «l’impiego è una specie in via d’estinzione»” (p. 42).
Sulle profezie meglio soprassedere. Ma siamo sicuri che ci sia un’abbondanza di competenze, talenti e creatività? Quest’offerta di capitale umano può essere svincolata da ogni ragionamento sulla domanda di competenze che proviene (non dal mercato ma) dalla società contemporanea? La nostra società ha un disperato bisogno di ulteriore conoscenza, non solo a fini economici, anche in un sistema capitalista. L’impiego «in via d’estinzione», invece, va ad arricchire la bacheca delle tesi che Gorz non può supportare se non facendo ricorso all’aneddotica e a delle doti – spesso fallaci – di veggente. Il lavoro sta cambiando – ed è una questione da affrontare –, ma una società senza lavoro è ancora ben lontana da noi.
[F.O.]
Featured image: RallitoX,
Ecology is Satan, Love Yourself (2015)
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