La Nobiltà del Padre

È mattina, accendo la tv. Fuori, la nebbia nasconde tutto il quartiere. Sul primo canale si parla delle feste, di presepe e altre decorazioni. Sul secondo canale un’intervista, parla un giovane della “generazione Erasmus“. Sul terzo canale, invece, il dibattito politico, sui postumi del referendum costituzionale.

Discutono col conduttore:
Fabio Mussi – classe 1948, esponente dell’ultima generazione di scuola PCI; Ministro dell’Università dal 2006 al 2008, si oppose alla nascita del Partito Democratico per fondare Sinistra Democratica, poi confluita in SEL, di cui è stato dirigente di primo piano fino alla recente deflagrazione. È tra i promotori del neonato partito Sinistra Italiana;
Paolo Cirino Pomicino – classe 1939, detto “O ministro”, maggiorente della corrente andreottiana della DC; deputato dal 1976, due volte ministro sul finire degli anni ’80; impera(va) su Napoli, il “vicerè“; travolto da Tangentopoli e da numerosi processi e condanne, continua a orbitare attorno ai partiti di centro e, soprattutto, ai tavoli del talk show.

Il referendum, dicevamo. Qualche giorno fa, subito dopo la vittoria del “No”, Marco Travaglio ricordava che la battaglia contro la riforma costituzionale nacque nel marzo 2014 grazie a un appello di Libertà e Giustizia, che metteva in guardia contro una possibile “svolta autoritaria“. Fu la prima volta in cui venne posta attenzione sul tema della riforma, ancora in embrione. Tra i primi firmatari: Gustavo Zagrebelsky, Sandra Bonsanti, Stefano Rodotà, Lorenza Carlassare, Salvatore Settis, Barbara Spinelli, Paul Ginsborg, Marco Revelli, Ferdinando Imposimato, Luciano Gallino, Dario Fo. E – nota a margine – solo due leader politici: Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio.

Il referendum, appunto. Che ha segnato la fine del Governo Renzi I. Renzi asceso al potere grazie alla volontà di “rottamazione“. Che non ho mai visto di buon occhio, per una serie di motivi:

  1. Si rottamano le cose, non le persone. Nell’era dell’ascesa del populismo e della violenza dialettica del Movimento 5 Stelle e della Lega (e non solo), è fondamentale rappresentare un’alternativa radicale anche nella comunicazione, senza rinunciare al conflitto ma adottando un linguaggio positivo, costruttivo, di speranza;
  2. Il punto è superare le idee. Nel 2012, mentre da una parte Renzi faceva a pezzi l’apparato di sinistra, dall’altra riproponeva il vecchio programma liberal-progressista di Tony Blair (poi attuato una volta al governo), “rottamato” già da svariati anni in Europa. E che in realtà in Italia era stato rappresentato e in parte applicato, negli anni ’90, proprio da quella classe dirigente fallimentare che Renzi intendeva scalzare;
  3. Non bastano gli annunci. Soprattutto quando si è in ascesa, bisogna avere il coraggio di dire “No” a tutti quei protagonisti del passato che vedono nella “rottamazione” il modo migliore per riciclarsi. Bisogna scacciarli dal carro del vincitore, impedire loro di salirci. Da subito, Matteo Renzi ha dimostrato che questa regola fondamentale avrebbe avuto numerose eccezioni, dettate dal bisogno di consenso;
  4. Non si butta (mai?) tutto. Se il cambiamento diventa epurazione generazionale, si getta via tutto ciò che ogni generazione produce di buono. E il “nuovismo” non fa che ripetere gli errori del passato, perché non fa tesoro dell’esperienza. Si potrebbe perfino arrivare a realizzare che anche i volti nuovi non sono così diversi da quelli vecchi.

Ecco, teniamo bene a mente questi 4 punti: dialettica non-violenta; rinnovamento dei programmi; rinnovamento trasversale e coerente dei dirigenti; capacità di discernere le eredità positive. Questo è mancato, questo serve. È mancato a tal punto che la “rottamazione” – la vera novità del renzismo, profondamente positiva nei momenti in cui queste condizioni sono invece state rispettate – a un certo punto è sparita dall’orizzonte. Quando invece molti presupposti erano esatti.

Principalmente due:

  1. Il conflitto generazionale è una questione centrale per la società italiana;
  2. Il rinnovamento delle idee e della classe dirigente è una priorità in primis per la sinistra.

Mentre nel mondo è la generazione dei “padri” ad avere in mano le redini, l’Italia è un Paese in cui il potere è nelle mani dei “nonni”.

Giorgio Napolitano, l’architetto.
Silvio Berlusconi e Beppe Grillo, leader di 2 dei 3 (4?) poli della politica italiana, che mantengono saldamente il controllo del proprio campo, restii a fidarsi – spesso a ragione – dei pretendenti alla successione.
Mario Monti, il cui consenso è minimo, ma che è l’unica alternativa tra i moderati.
L’imprenditoria, che pullula di over-65. Tra i tanti: i sempre-presenti Salvatore Ligresti e Franco Caltagirone, i bancari Giuseppe Vita (UniCredit), Gian Maria Gros-Pietro e Giovanni Bazoli (Intesa San Paolo), gli editori Carlo e Franco De Benedetti (Gruppo L’Espresso, tra le altre cose).
E poi i jolly, gli uomini per tutte le stagioni e per tutti i ruoli: Luca Cordero di Montezemolo, Franco Carraro, Carlo Taormina, Carlo Tavecchio.
Tante differenze, un dato in comune: la carta d’identità.

La classe dirigente svezzata negli anni ’40 dice ancora prepotentemente la sua, anche nella cultura, nei media. E per fortuna, certo.

Eugenio Scalfari e Antonio Padellaro pontificano dalle colonne dei loro editoriali, Carlo Freccero è ormai costantemente “il guru“, perfino Pippo Baudo è tornato a Domenica In. Quando l’amarcord non s’impone in prima persona, ci pensa l’appena cinquantenne Fabio Fazio a riportarci negli anni ’60 col Rischiatutto.

Il dominio più grave e doloroso è quello a cui assistiamo nelle università. Un mondo già di per sé conservatore, una conservazione che in Italia assume tratti archeologici. La gerarchia accademica esemplifica e rispecchia perfettamente la statica generazionale: in media, si è ricercatori (i figli) a 46 anni, associati (i padri) a 54, ordinari (i nonni) a 59. I dinosauri, i baroni, non mollano un centimetro ai loro allievi – se e quando hanno avuto, come raramente accade, la lungimiranza di non pensare solo al proprio destino, creando una piccola “scuola” -, truccano, manovrano, si prodigano per non arretrare. Continuano a gestire in prima persona centinaia di migliaia di euro di fondi di ricerca. La stessa generazione che distrugge università e ricerca poi fagocita le briciole che rimangono.

Però attenzione, attenzione. Mai dimenticare: non tutto va gettato via. E, soprattutto, non tutto è immobile, non tutti i movimenti positivi sono visibili. A volte anche grazie al renzismo, sia come motore propulsivo che come attore di governo.
Se è vero che ci sono Grillo e Berlusconi, è anche vero che sono protagonisti anche il 40enne Matteo Salvini e il relativamente giovane (e fedelissimo) Direttorio M5S, oltre allo stesso Renzi. E sì, certo, il dato demografico non è tutto. Ma è qualcosa.
Se è vero che Scalfari e Padellaro rimangono di rilievo, è altrettanto vero che il primo ormai stenta a spiccare dietro a Mauro e Calabresi, e il secondo è offuscato dal direttore Travaglio.
Non è un caso che anche Milena Gabanelli e Michele Santoro abbiano fatto qualche passo indietro, dopo tutto (sebbene possano figurare fra i padri, più che fra i nonni).
Alla Rai non c’è più Anna Maria Tarantola, sostituita da Monica Maggioni; all’Eni c’è Descalzi al posto di Scaroni; prima Pansa e poi Moretti hanno sostituito Guarguaglini e Orsi a Finmeccanica-Leonardo.

Ma è tutto molto più profondo, come dimostrano i risultati del referendum. La questione generazionale non è una serie di nomi onnipresenti, è un iceberg pienamente immerso nella società italiana. Alimentato dallo stesso governo Renzi che ha “cambiato verso” in qualche nomina.
Cos’hanno ottenuto i giovani italiani nei suoi 1000 giorni di governo? Poco. Un bonus monetario per i 18enni, una riforma del lavoro precarizzante, una riforma della scuola minima e inefficace. Qualcuno parla addirittura di tradimento. Termine forte ma con qualche ragione, se pensiamo a cos’ha ottenuto la fascia più anziana della società: abolizione della tassazione sulla prima casa (sono i più anziani, e tra loro i più ricchi, i proprietari), aumento di minime e quattordicesima per i pensionati.
Anche qui: lungi dal voler fomentare il conflitto, è chiaro quali siano le priorità. Si è scelto di continuare ad alimentare un modello in cui il patrimonio dei nonni serve per sopperire alle difficoltà di figli e nipoti (vedi qui e qui). Un modello blindato dalla predominanza degli anziani nella classe dirigente, nei partiti (PD e Lega, su tutti) e nei sindacati.

Un modello che la sinistra, nei nomi e nelle idee, continua ad abbracciare, anche al di fuori dello steccato renziano. La sinistra italiana, più che gli altri campi, continua ad essere rappresentata, politicamente ed intellettualmente, dalla generazione coi capelli bianchi. I “vecchi democratici“, molti “sessantottini“. Negli organi dirigenti, nei comitati promotori. Candidati, eletti, bocciati. In maggioranza e all’opposizione, dentro e fuori il Parlamento. Firmano appelli, promuovono manifestazioni e raccolte firme, rappresentano i progressisti in tv e in libreria. Personaggi di grande caratura, spesso, e per questo difficili da sostituire.

Facevano parte di questo gruppo Andrea Gallo e Margherita Hack. Ne fanno ancora parte, come tanti altri già citati, Luigi Ciotti, Gino Strada, Alex Zanotelli, Andrea Camilleri. Ma anche Sergio Staino, Erri De Luca, Vauro, Marco Revelli, Paolo Flores d’Arcais, Sergio Cofferati, Fausto Bertinotti, Cesare Salvi, Valentino Parlato, Franco Bassanini, Massimo Cacciari. E perché no, gli ultimi leader del centro-sinistra: Romano Prodi, Massimo D’Alema, Walter Veltroni, Pierluigi Bersani. E tanti altri. Sembra che Giuliano Pisapia non veda l’ora di unirsi, ad esempio.
Sono (stati) i punti di riferimento, gli appigli, quelli a cui rivolgersi per spiegarci cosa pensiamo. I miei maggiori, scriverebbe qualcuno. Amati e odiati, spesso (sempre) conflittuali fra loro. Spaziano su un campo largo, parlano a un corpo eterogeneo eppure con sentimenti comuni. Parlavano, anzi. Perché lo spazio è sempre più stretto e la comunicazione è interrotta. (Non per tutti, certo, ma si guardi alla sostanza dell’argomentazione).

È tempo di cambiare. È tempo che i nonni lascino spazio ai loro figli, ai padri. Ed è tempo, soprattutto, che i padri si diano una mossa. È tempo che i quarantenni, i trentenni si gettino nella mischia (prima di tutto politica), che inizino a prendersi ciò che è dovuto loro. Attenzione: non per una questione meramente generazionale, non perché non fanno parte della generazione che sta uscendo sconfitta dalla storia. Ma perché è l’unico modo per allargare il campo, riaprire le comunicazioni e leggere il mondo del 21° secolo. Dobbiamo credere che in queste generazioni (nuove ma mature!) esistano altrettanti uomini e donne capaci di aspirare alla statura di questi grandi protagonisti. Ci sono, ci sono sempre, ci sono sempre stati. Questa mancanza di fiducia costituisce il nocciolo della vera conservazione, ostacola il balzo nel vuoto implicito in ogni cambiamento. Bisogna smettere di soffocare il ricambio, di soffocarsi, di avere timori reverenziali. Farsi da parte non è essere “rottamati”, è giocare un ruolo diverso. Marginale, certo. Ma è essenziale cambiare passo, dire basta. Qualcuno lo sta già facendo, non a caso.

Non possiamo più essere rappresentati principalmente da chi è nato prima dell’Europa unita. La loro connessione è spenta, la capacità di incidere nulla, quella di leggere e interpretare offuscata, quella di comunicare assente. Gli esempi sono infiniti, purtroppo. Zagrebelsky e De Mita a sfidare Renzi, da ultimo, un paradosso senza pari. Mai più. È finita, avanti gli altri. Che si facciano avanti gli altri. Con nuova energia, con un passato ancora in gran parte da costruire. E con nuove idee, soprattutto.

Mi è venuta in soccorso Harper Lee, a dare a questo fiume di parole e collegamenti un ordine e una forma compiuti. A dirci cosa fare con le nostre sentinelle. A ridimensionare la violenza, forse:

“…tu, dunque, signorina, anche se nata con la tua coscienza, a un certo punto l’hai incollata come un cirripede a quella di tuo padre. Mentre crescevi, quando sei cresciuta, in un modo del tutto ignoto a te stessa, hai confuso tuo padre con Dio. Non l’hai mai visto come un uomo con il cuore di un uomo e le debolezze di un uomo: ammetto che questo possa essere stato difficile, tanto pochi sono gli errori che fa, ma ne fa come tutti gli altri. Tu eri emotivamente un’invalida, appoggiandoti a lui, ricevendo le risposte da lui, dando per certo che le tue risposte sarebbero sempre state le sue.”
Lei porgeva l’orecchio alla figura seduta sul sofà.
“Quando, passando per caso, lo hai visto fare una cosa che ti è sembrata l’antitesi stessa della sua coscienza – della tua coscienza -, letteralmente non hai potuto sopportarlo. Ti ha fatto stare male fisicamente. La vita, per te, è diventata un inferno sulla terra. Dovevi ucciderti, o lui doveva ucciderti perché tu funzionassi come un’entità separata.”
Uccidermi. Ucciderlo. Dovevo ucciderlo per vivere…
(Go Set a Watchman, 2015, p. 257)

Il rinnovamento, il ricambio. Questioni delicate perché, in fondo, intrinsecamente violente. Come qualsiasi rottura, strappo, cambiamento, crisi. Antonio Gramsci scriveva che la crisi consiste «nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere» (Quaderni del carcere, p. 311). Non c’è molto da aggiungere.

È tempo di liberarsi di questa subordinazione. Possiamo vivere – e cambiare – senza. Padri Nobili, li chiamiamo. È tempo di spazzare via questa nobiltà, che come ogni nobiltà è superflua.
Metaforicamente parlando, s’intende.


[F.O.]
Featured image: Salvador Dalì, Old Age, Adolescence, Infancy (The Three Ages) (1940)

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