Il treno per Roma

Ripenso a quella lezione – credo fosse in secondo liceo – in cui la professoressa di lettere, alle prese con l’educazione civica, cercava di spiegare alla classe cosa significasse che il voto è un diritto-dovere. Per qualche motivo quel concetto mi era già familiare, e credevo che la sua spiegazione non facesse sufficientemente breccia nei cuori dei miei compagni. Negli ultimi anni ogni tanto la mia mente è tornata a quel momento, e tuttavia finora non ero mai riuscito a trovare un modo per spiegarlo meglio di quanto facesse lei. Oggi forse ce l’ho fatta.

In termini astratti, che il voto sia un diritto-dovere significa che posso scegliere se esercitare o meno il diritto, ma che questa scelta è in realtà vincolata dal dovere di contribuire a determinare l’andamento della Repubblica. L’astratto però non funziona, serve il concreto. Ecco: in termini concreti, il diritto-dovere è il mio biglietto per Roma.

Da quando, pochi giorni fa, è uscita la data del prossimo referendum costituzionale, mi confronto coi miei compagni di corso su cosa faranno, se e quando torneranno, se troveranno il modo per votare da dove scrivo, da Milano. Al loro “Sinceramente non lo so, tornare per un referendum…” rispondevo con un conciliante “Certo, capisco…”. Quando me lo sono chiesto davvero, però – davanti al computer, di fronte ai prezzi (non bassi) dei biglietti -, la non-risposta attendista si è trasformata in un “Ma certo che torno”.

La materializzazione del concetto nasce dalla ripetizione della scena. Solo qualche settimana fa mi trovavo a fare la stessa ricerca online, per motivi diversi. Ricorrenze familiari, impegni inderogabili con gli amici. E allora ai miei compagni (vecchi e nuovi) avrei voluto dire: tutte queste menate che ci sorbiamo, questi discorsi retorici e spesso ipocriti, significano una cosa molto semplice: non pensarci su, compra il biglietto. È la stessa scelta che fai per i tuoi amici o, ancor di più, per la tua famiglia. Ho diritto a tornare per quel matrimonio, ho diritto a tornare per andare alle urne. Ma soprattutto: devo tornare per quel matrimonio, devo tornare per andare alle urne. Il diritto di scegliere esiste perché la libertà è la regola, ma è la componente di dovere che conta. Il dovere non è che un criterio molto semplice per scegliere se fare o non fare. Che faccio, torno? Sì. Che faccio, mi alzo dal letto? Sì. Semplice. Imperativo categorico. La propaganda, le preoccupazioni per l’astensionismo, l’amore per le regole: bullshit. Cos’è un diritto-dovere? È un treno per Roma.

Ed è un treno che, stavolta, prendo per votare “No”. Non entro nelle polemiche (vedi anche qui) e non ho intenzione di fare campagna. Discuterò con tutti cercando di convincere della validità dei miei argomenti, ascolterò chiunque possa permettermi di approfondire e, se vorrà, lo ospiterò nei miei spazi. Ma non è questa la sede per un’analisi vera (ne trovate alcune serie e utili qui, quiqui, ad esempio), esporrò solo i motivi della mia scelta. Conscio – ed è una delle poche cose che condivido del lungo post di Fabrizio Barca – che non è il caso di eccitare l’Elefante: né la vittoria del “Sì” né la vittoria del “No” saranno catastrofiche o rivoluzionarie.

Le modifiche alla Costituzione sul piatto introducono essenzialmente 10 novità:

  1. Il bicameralismo differenziato in sostituzione dell’attuale bicameralismo paritario;
  2. Le nuove composizione ed elezione del Senato;
  3. Tempi certi per l’esame delle iniziative legislative del Governo;
  4. Uguaglianza di genere nelle leggi elettorali;
  5. Nuove regole per gli strumenti di democrazia diretta (leggi di iniziativa popolare, referendum abrogativi e propositivi);
  6. Nuove modalità di elezione del Presidente della Repubblica e dei giudici costituzionali;
  7. Abolizione del CNEL;
  8. Ratifica dell’abolizione delle province;
  9. Abolizione delle competenze concorrenti tra Stato e Regioni e nuova suddivisione delle loro competenze;
  10. Taglio di alcuni costi degli organi di governo.

Perché è importante la lista? Perché la ponderazione della media è un concetto fondamentale. Quella elettorale, in particolare nei referendum (che è una scelta binaria, mentre in un’elezione in genere – ballottaggi esclusi – abbiamo più di 2 alternative), è sempre una scelta estremamente sintetica. Ovvero concentriamo in essa un lungo processo di elaborazione delle informazioni a nostra disposizione. Nella sintesi, che è perdita di informazione, non possiamo ripercorrere a ritroso il processo logico-decisionale. Ovvero: dato il set di informazioni (cosa cambia, quali sono la mia ideologia, la storia di governo, la mia classe sociale, etc.), posso ricostruire una determinata scelta (Sì/No), ma guardando al singolo voto (Sì/No) non posso ricostruire l’esatta motivazione che in esso è sottintesa. Il “Sì” (o il “No”) di un attivista è identico al “Sì” (o al “No”) di un voto di scambio. A proposito di “dimmi con chi vai e ti dirò chi sei”. Impossibile.
Nello scegliere, la nostra testa (col nostro cuore, l’Elefante e il Cavaliere) compie un processo di estrema sintesi, che possiamo immaginare come una media di infiniti fattori: a) mi piacciono i cambiamenti introdotti (+1); b) sono di sinistra/destra (-1); c) il candidato non ha governato bene (-1); d) la mia classe sociale ne beneficia (+1), etc. Se il bilancio è positivo voto a favore, altrimenti voto contro/a favore di qualcun altro.

Se questa sintesi fosse – come sopra – una media semplice, aritmetica, il mio sarebbe un “Sì” convinto. La maggioranza dei cambiamenti sul tavolo, infatti, mi vede favorevole, in alcuni casi in maniera entusiastica. Sono un fervente anti-regionalista e vedo con grande favore la ridefinizione delle competenze di Stato e Regioni, sebbene si possa fare (molto) di più e la confusione sia ancora tantissima; sarei contento che si ampliassero gli spazi partecipativi dei cittadini potenziando referendum e leggi d’iniziativa popolare; credo che la certezza dei tempi sulle leggi governative sarebbe un passo importante per curare la patologica subordinazione del Parlamento all’Esecutivo. Altri cambiamenti mi vedono meno estatico ma in generale favorevole: CNEL e uguaglianza di genere sarebbero buone notizie, a raccogliere inviti decennali; l’abolizione delle province sarebbe solo un pro forma; le modifiche relative a PdR e giudici costituzionali non mi convincono, ma sono una conseguenza secondaria dei punti (1) e (2) (a proposito, leggi qui); il taglio dei costi sarebbe l’ennesimo prezzo da pagare per la follia anti-politica, ma non sarebbe il più grave dei casi.

Se si fosse spacchettato il referendum, ci sarebbe stato più di un “Sì” da parte (non solo) mia, e sarebbe stata una scelta molto saggia. Anche per calmare l’Elefante, per promuovere il discernimento costituzionale. La rinuncia è un errore gravissimo, e centrale, forse ormai irrimediabile. Ma non lo segnalo solo per piangere sul latte versato. Lo faccio perché l’opposizione allo spacchettamento – che avrebbe dato agli italiani l’opportunità di sfuggire alle accuse di allergia a qualsiasi cambiamento – dimostra che il tutto si regge su uno scambio tra diversi soggetti (Stato, cittadini e Regioni), un compromesso dal delicato equilibrio e che, a mio parere, vede i cittadini molto penalizzati. Un ricatto, potrebbe dire qualcuno – creare un pericolo per invitare a sfuggirgli.

Peccato, quindi, che si debba sintetizzare, che la nostra testa debba assegnare molti pesi, nel fare la sua sintesi. Ogni punto della lista non vale 1/10, ma alcuni valgono molto di più e alcuni molto di meno. Nel caso specifico, i punti (1) e (2) valgono almeno il 70% dell’intera riforma. Ne costituiscono il nucleo fondante, la ragion d’essere, sono l’elemento con il maggiore impatto sulla vita futura del Paese. Che sarà sicuramente libera da derive autoritarie (pesi e contrappesi sono tutelati, soprattutto non toccando i poteri del Governo) ma che sarebbe anche lontana, in caso di approvazione, della democrazia che vorrei per il mio Paese. E credo sia questo fattore, l’attaccamento (o meno) a determinati principi, a dover determinare le nostre scelte, più della paura o della preferenza per un possibile scenario politico nel breve. La Costituzione va discussa col beneficio di un velo d’ignoranza, l’unica assicurazione contro le insidie del lungo periodo.

I punti (1) e (2), strettamente legati fra loro, vanno nella direzione opposta.

Il nuovo bicameralismo risulta in un’inaccettabile riduzione netta della rappresentanza, che stringe sempre più i cittadini tra potentati (di sindaci, consiglieri e presidenti regionali, capo del Governo, leader di partito) e rappresentanti indeboliti (i consiglieri comunali, i deputati, gli europarlamentari, i membri degli organi di partito). Lo scambio offerto con gli strumenti di democrazia diretta non è sufficiente a colmare questa riduzione. Il risultato sarà un ulteriore accentramento nelle mani di premier e leader di partito – a cui contribuiscono una legge elettorale (attualmente) pessima (sotto ogni regime costituzionale) e l’assenza di leggi sui meccanismi democratici interni dei partiti -, una maggiore confusione su competenze e iter legislativi e, soprattutto, un ulteriore logoramento del rapporto tra cittadini e istituzioni democratiche. I grandi benefici della fiducia unica sarebbero sovrastati da costi a mio parere insostenibili. Senza contare che, ancora una volta, mentre s’indica la luna (anche qui), ci si ostina a guardare il dito (vedi anche qui, con alcuni personali distinguo).

A ciò si aggiunge un capolavoro di irrazionalità. Un nuovo Senato in rappresentanza dei territori (la funzione di raccordo non dovrebbe essere di tutti i parlamentari? E i Consigli Regionali? E la conferenza Stato-Regioni?), con poteri barocchi, membri non remunerati (perché?), senza rispettare gli equilibri fra le Regioni e con rotazione continua. Unica buona notizia la possibile indicazione diretta dei cittadini, questione di legge elettorale ancora una volta. Senza entrare nella logica del sarebbe-stato-meglio (nello specifico: sarebbe stato meglio eliminarlo compensando, ovvero ampliando la rappresentanza, in altri modi), lo scambio è chiaro: il Governo si consolida, accontenta le Regioni concedendo loro una Camera ma limitandone le competenze, promette ai cittadini più stabilità ed efficienza in cambio di minore rappresentanza.

La mia media (ponderata) è presto fatta, la riforma bocciata, con fondo di tristezza. Per l’ennesima occasione sprecata, per l’ennesimo compromesso al ribasso, per l’ennesima guerra dialettica che genera solo sconfitti.

Se non l’avessimo capito già, il cambiamento non è sempre positivo. E la tristezza che ci deriva dal realizzarlo non cambia il risultato. Illudersi che il maquillage rivoluzioni la sostanza non farà sì che la sostanza cambi davvero. Solo imparare a saltare sui treni per Roma cambia davvero le cose.


[F.O.]
Featured image: Piero Gentilini, Serie Treno (2012)

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