Il convitato di pietra

Giorni fa ho avuto modo di riprendere il filo di un discorso che avevo intrapreso qualche tempo addietro. L’occasione è stato un incontro sulla politica industriale, a partire dal nuovo libro di Fabrizio Onida e Gianfranco Viesti. L’incontro (nel senso pugilistico del termine) vedeva da una parte, tra i “pro”, gli autori (bocconiani doc) e un piccolo gruppo di figli dell’IRI; dall’altra, tra i “contro”, una schiera di bocconiani altrettanto doc, capitanati da Francesco Giavazzi e Franco Debenedetti. Nota a margine: età media del consesso circa 65 anni.

Di seguito, un elenco delle argomentazioni delle due fazioni, dal fine molto semplice: tracciare una panoramica dello Stato dell’Arte sul tema. Cominciamo dalle posizioni dei liberisti:

  • La “politica industriale” in genere non esiste, in ogni contesto assume caratteri diversi;
  • Lo Stato dovrebbe agire perché gode di asimmetrie informative? No, il mercato è più efficace, avendo solo le informazioni necessarie, che ottiene al costo minimo;
  • Lo Stato ha sempre un ruolo nell’economia. Da una parte ciò è ovvio (e giusto) – quando ci si limita allo Stato minimo smithiano: giustizia, infrastrutture, istruzione, difesa -, dall’altra è impossibile definire chiaramente cos’altro debba fare;
  • Una volta individuato il “cosa”, l’attuazione passa per la PA, ovvero: inefficienza, “rumore”, diffidenza dei cittadini. Oggi lo Stato non funziona, il sistema politico non porta a termine i suoi progetti, sia per competenza che per motivi organizzativi, legislativi, giudiziari;
  • Salvataggi e ostacoli al fallimento danneggiano la produttività, ostacolando la selezione naturale operata dal mercato;
  • Il vantaggio dell’intervento statale sta nella capacità di interconnettere soggetti diversi? Non sempre (v. PRIN italiani vs ERC grants europei);
  • Il capitale privato sa finanziare anche progetti ad alto rischio e a rendimento molto differito (v. Space X, Tri Alpha);
  • L’unico criterio guida per scegliere se intervenire lo fornisce la teoria: c’è un fallimento del mercato? Se sì, l’intervento è legittimo (v. credito alle PMI). Ciò vale anche per i casi in cui il mercato non internalizza delle economie esterne (v. settore delle costruzioni e difesa del territorio);
  • Nella maggior parte dei casi, bastano le politiche e le leggi antitrust per ridurre l’incentivo a scelte industriali scellerate;
  • L’esempio dei venture capital segnala un tipo sbagliato di intervento. Se, per esempio, i capitali non si mobilitano perché ci sono delle frizioni (ad es. la possibilità di opt-out), si crea uno spazio per l’intervento positivo dello Stato: cambiare le regole, togliere le frizioni, non agire direttamente al posto del venture capital.

Replicano gli “interventisti”:

  • La domanda fondamentale è: accettiamo il rischio che il mercato non generi da sé le trasformazioni strutturali necessarie per evitare il declino dopo una transizione? L’Italia post-globalizzazione (come il Giappone) soffre la mancata conversione da un modello di crescita per imitazione a un modello di crescita per innovazione: accettiamo tutto ciò passivamente?
  • Tutti i Paesi agiscono, ed esistono vari esempi virtuosi (v. la Germania e il settore geotermico);
  • La “politica dei fattori” è fondamentale, ma la politica industriale non può consistere di piccoli provvedimenti orizzontali (v. Piano Industria 4.0): o è mission-oriented o non è;
  • La politica industriale non consiste in una visione pianificatoria, in un intervento pubblico deterministico (v. cd. “piani di settore“), ma i Governi devono compiere scelte, non si può agire solo sul doing-business, altrimenti non si tratta di PI ma di politica di sviluppo di base;
  • Lo Stato non gode di particolari asimmetrie informative, ma a volte le imprese non si muovono da sole per aggregarsi in progetti benefici per tutti: serve un catalizzatore, un facilitatore;
  • In realtà è generalmente vero che il mercato finanziario mostra grossi problemi nel sostenere il rischio e redditività di lungo periodo.

Ho poi lasciato da parte, in evidenza, due questioni emerse che ritengo fondamentali:

  1. La più grande esperienza di politica industriale italiana – l’IRI – non nacque da speculazioni teoriche e da elaborazioni politiche di lungo corso. L’IRI fu figlio della Grande Depressione, fu la reazione al constatare che il mercato attraversava una fase non breve in cui non era assolutamente in grado di rispondere alle esigenze delle società;
  2. La PI è necessariamente mission-oriented, ma non sempre le politiche m-o hanno funzionato. Lo hanno fatto, solo in alcuni Paesi, principalmente tra le due guerre e negli anni ’50 e ’60. Questo perché le politiche m-o sono politiche di allineamento delle grandi fazioni di interessi industriali, richiedono convergenza e unità d’intenti. Oggi – nell’era della crisi degli Stati nazionali, dell’incapacità di convergenza delle forze economiche e politiche – è possibile tutto questo?

Da ciò, le mie conclusioni:

  1. Lo Stato minimo smithiano rimane un punto di riferimento fondamentale, la cui costruzione rappresenterebbe un progresso non piccolo, in particolare rispetto all’oggi. Basti pensare a un sistema dell’istruzione efficiente e ad una politica estera di pace;
  2. Lo Stato minimo, tuttavia, di per sé non risponde alle esigenze di “sicurezza sociale” che vivono nella società e di cui risente la stessa economia. Il guadagno di produttività assicurato dalla selezione di mercato esiste solo se si è in grado di evitare disoccupazione e declino, solo se si permette a imprese e famiglie di svolgere le loro attività al riparo non da qualsiasi fallimento, ma da qualsiasi catastrofe. Le Grandi Crisi del 1929 e del 2008 sono Fallimenti del Mercato, mettono in dubbio le capacità strutturali del mercato di generare benessere diffuso e duraturo, e perciò non possono essere affrontate come normali scompensi. Lo Stato deve agire – anche con la politica industriale – per fare in modo che non si creino quegli scompensi strutturali che costituiscono l’essenza delle Grandi Crisi;
  3. Il ruolo della politica è fondamentale. Lo stato dell’amministrazione della cosa pubblica e il grado di cooperazione nell’economia, nella politica e nella società sono fattori endogeni, non possono essere presi come dati di partenza. Costruire una politica industriale significa imparare a cooperare, a gestire i conflitti alla base di ogni progresso, significa generare unità d’intenti, coesione e convergenza;
  4. La mancanza di determinismo è un concetto chiave: né la teoria economica neoclassica né l’interventismo sanno fornirci, ad oggi, ricette sempre valide. Sebbene “non sempre” la politica industriale porti frutti, il dato politico rimane che il beneficio di alcuni interventi può essere (enormemente) maggiore dello sforzo prodotto. La storia di Germania, Italia e Stati Uniti sta a testimoniare che così è.

Lo Stato dell’Arte ci permette quindi di valutare lo stato di salute delle due fazioni. I “contro”, da una parte, sembrano imprigionati nella gabbia dorata della teoria, nella venerazione di un Mercato che vive nell’Iperuranio. Giudicano la realtà con l’occhio asettico del chimico da laboratorio e si rassegnano alle minime certezze invece di esplorare l’universo del possibile. I “pro”, invece, si rifugiano in un pragmatismo che fa appello agli istinti sociali più che alle esigenze profonde. Finché certe tensioni non si placheranno – il nazionalismo contro i capitali esteri, l’assistenzialismo – la loro battaglia politica non sarà al passo col 21esimo secolo.

Ciò che più importa, tuttavia, è la conferma che si sta compiendo un passo. Gli ultimi anni hanno segnato la scomparsa del tema dal dibattito pubblico, nella società, nella politica, nell’accademia. La motivazione è chiara: politiche efficaci hanno alti costi di coordinamento, che si possono evitare lasciando il terreno all’atomismo e alla difesa degli interessi particolari (le politiche “orizzontali”). Ora il tema è di nuovo sul tavolo e, sebbene non tutti ne vedano la novità o l’opportunità, il colpevole sembra facile da individuare: insegna all’University of Sussex ed è ormai l’ingombrante convitato di pietra in ogni discussione nel merito.


[F.O]
Featured image: Clive Gardiner, Motor Manufacturing (1930)

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