Forse è l’inconsapevole attaccamento alla lingua materna o forse, semplicemente, è il mai dichiarato senso di pentimento di noi Erasmus. O forse – forse – è Guccini.
Oggi, e non di rado, Francesco da Pavana permea le mie quattro mura francesi. Lo ascolto controvoglia: comincio a scovare un nesso di causa-effetto tra la sua musica e una certo sentimento di incompiutezza.
Si potrebbe superficialmente definire malinconia, ma non lo è. La malinconia la si prova ascoltando, a posteriori, ciò che è stato colonna sonora di un periodo felice, quando lo sconfinato potere evocativo della musica stabilisce il confronto tra presente e passato. La sfida è impari: il presente, con i suoi dolori e le preoccupazioni contingenti, non può reggere il confronto con il secondo, edulcorato dalle migliori illusioni che la mente sa fabbricare. Nascono quindi, inevitabilmente, il rimpianto dei tempi andati, il disprezzo di ciò che si sta vivendo, e una fastidiosa nausea per quei brani.
In questo caso, dicevo, tutto ciò non c’entra. Non c’entra la malinconia, né tantomeno il rimpianto di una settimana di vacanza. Ascolto Guccini dalla tenera età, le sue musiche e le sue parole sono spalmate omogeneamente lungo tutti i miei 23 anni (vedi “ascolto passivo”). Ma allora cos’è? Perché indugio sempre di più all’ascolto?
Succede che i suoi brani, le sue parole, mi mettano in imbarazzo, in soggezione. Un senso di colpa bello e buono, un’immaginaria disapprovazione di sé da parte di un individuo di riferimento. Un atto d’accusa.
I sentimenti e i valori che tante volte ho cantato come miei – quelli delle radici, dei vorrei, delle sponde brulle di un fiume, del vivere una stracca ma evocativa domenica in settembre, delle osterie fuori porta e di un popolo che può liberare se stesso – inizio a scorgerli come sfocati e lontani.
Si sono frapposti, tra me e loro, chilometri di trafficate autostrade, prodotti pronti in scatola, l’incognita di ciò che si era e la certezza di ciò che si diventerà. Una realtà di cose fatte uomini e di uomini fatti cose. Amicizie “social”, tante che a passeggiare in questa piazza virtuale si vedono più sconosciuti che a Piazza di Spagna. E diventa difficile rintracciare, in mezzo ai turisti che fotografano, quelli che sono lì ad aspettarti, quelli con cui hai sempre avuto appuntamento.
Si torna a casa, al prezzo di trovare sempre più rughe sui volti dei tuoi cari. Com’è che loro, sempre uguali da quando sei al mondo, decidono di invecchiare proprio quando te ne vai? Anche questo è difficile: percepire che i ruoli si stanno invertendo ma dover ripartire.
Caro Francesco, non giudicarmi dunque se non voglio più ascoltarti. Non giudicarmi se non so quel che sarà e questo mondo non è come me lo aspettavo. Ti ho lasciato solo a Pavana, è vero, ma torno presto. Ti porterò del vino.
[M.M.]